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Aveva davvero senso fare la seconda stagione di The Rain?

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Ad alcuni la seconda stagione di The Rain è piaciuta molto. Altri l’hanno trovata poco stimolante. Altri ancora ne hanno criticato più di un aspetto.
Ma su una cosa siamo tutti d’accordo: qualcosa in questa serie è effettivamente cambiato. Che sia la trama, che siano i personaggi o le sequenze narrative, i nuovi episodi rilasciati da Netflix lo scorso 17 maggio ci hanno lasciato addosso una sensazione diversa.

E la domanda, doverosa e legittima, è questa: aveva davvero senso fare una seconda stagione di The Rain?

The Rain

La serie, ideata da Jannik Tai Mosholt, Esben Toft Jacobsen e Christian Potalivo, è stata il primo prodotto danese a essere lanciato da Netflix e racconta di un mondo post-apocalittico in cui si lotta essenzialmente per la sopravvivenza.

Chi ha visto la prima stagione sa già quale è il filo conduttore di tutta la trama (altrimenti potrete chiarirvi le idee leggendo questa recensione): una pioggia letale si abbatte sulla Danimarca decimandone la popolazione. Due fratelli, Simone e Rasmus, riescono a scampare al pericolo rifugiandosi in un bunker nel quale resteranno chiusi per sei anni. Una volta tornati allo scoperto, trovano il mondo che conoscevano completamente devastato dal virus e, insieme ad un gruppo di altri superstiti, si mettono in cammino per cercare delle risposte e per restare in vita.

Nel finale della prima stagione arriva l’agghiacciante verità: a Rasmus, uno dei protagonisti scampati alla pioggia, il virus è stato iniettato da bambino, per cui la sua presenza si rivela pericolosa per tutti coloro che gli sono accanto.

The Rain 2

Ed è da qui che parte la seconda stagione. Un piede premuto sull’acceleratore ci catapulta di nuovo nel cuore della storia. Il piede è quello di Martin, lanciato in una fuga folle per mettere in salvo i suoi compagni. Ma è anche quello del regista, Kenneth Kainz, che dà a questi nuovi episodi un ritmo frenetico e vertiginoso.

Partiamo proprio da questo aspetto per analizzare i pro e i contro della seconda stagione di The Rain.

Lo sprint dei nuovi episodi è un primo problema. O un valore aggiunto, dipende dai punti di vista. Questa seconda parte è stata pensata per essere sicuramente più veloce della prima. Le puntate sono solo sei e hanno una durata (quaranta minuti circa) inferiore rispetto a quelle della prima stagione. Ne deriva che i momenti morti vengono praticamente azzerati e che la narrazione segue un’andatura molto più serrata, frenetica.

La scelta, tuttavia, ci porta a fare i conti un problema di climax.

Si passa da una scena ad alta tensione a una sequenza riflessiva nel giro di pochi secondi e questo, specie nelle prime puntate, ha l’effetto di disorientare lo spettatore, che si ritrova impelagato in un vortice di tensione costante ma non sempre crescente.

E veniamo alla trama. I sei episodi della seconda stagione si soffermano in particolare sul personaggio di Rasmus, che è cresciuto (è davvero tanto) e si è fatto più complesso. Simone e gli altri cercano di proteggerlo, l’Apollon vuole farne una cavia. Per quale motivo? Uno dei problemi di The Rain, che poteva essere chiarito in questa seconda stagione, è proprio questo: quali sono i piani reali dell’Apollon? Perché l’impulso che muove le macchinazioni dei “cattivi” non è mai del tutto chiaro.

E poi c’è Sarah, colei che riesce a trovare subito una strana alchimia con il ragazzo e che, se da un lato ricalca in parte la storia già vista con Beatrice nella prima stagione, dall’altro mostra anche aspetti del tutto inediti. Stavolta il contrasto tra i due personaggi, Rasmus e Sarah, è anche il contrasto degli opposti che si attraggono e si completano. L’uno potenzialmente distruttivo, l’altra estremamente fragile e vulnerabile.

E questo porta a un’altra questione non secondaria: che cos’è realmente Rasmus? Vittima, salvatore, distruttore dell’umanità?

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Qui la narrazione prende una via diversa rispetto alla prima stagione. Il virus, fino a quel momento minaccia esterna, si fa potere attraverso il corpo di Rasmus. Diviene un dono esclusivo, una sorta di privilegio da cui derivano forza e responsabilità. Ci si arrischia in una strada intricata, che è quella del passaggio dal genere fantascientifico a quello supereroistico.

Ce n’era davvero bisogno?

L’evoluzione del personaggio di Rasmus è un aspetto che funziona di per sé. Il suo travaglio interiore, il rapporto con Simone, la complessità psicologica della sua condizione, al di là del “potere acquisito”, sono elementi che riescono a coinvolgere emotivamente lo spettatore.

Così come le atmosfere danesi, sempre cupe, nostalgiche e desolate. E così come la potenza dei flashback, uno degli assoluti punti di forza della serie.

Se aveva davvero senso oppure no fare la seconda stagione, lo lasciamo decidere a voi. Una cosa che invece non riusciamo davvero a spiegarci è perché stavolta in The Rain non piove mai?

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