Far ridere è un’impresa difficile, lo sappiamo tutti. Creare una sit-com originale, scritta in maniera intelligente, supportata da battute fresche e con un autentico senso dell’umorismo richiede impegno e talento, ma è necessario anche essere sintonizzati sulle giuste frequenze del contesto socio-culturale in cui si vuole provocare la risata. Si chiama umorismo la capacità di cogliere e rappresentare gli aspetti più curiosi e divertenti della realtà, quando questo non avviene, si chiama flop. Quando la sit-com non genera le risate sperate però non è sempre colpa del cast o della mancanza di qualità dello spettacolo, a volte potrebbe non essere riuscita a raccontare l’epoca in cui è nata. I 5 prodotti seriali che abbiamo raccolto in questa lista, come The Ranch, non sono né scadenti né pigri, semplicemente sono nati nell’epoca sbagliata. Si tratta di serie tv di qualità che hanno in comune un cast eccellente che il più delle volte ha alle spalle una solida esperienza comica; strappano sempre un sorriso, ma lo fanno proponendo un umorismo datato e nostalgico. Come un buongiornissimocaffè, queste 5 serie tv fanno sorridere, poi stancano. Ricordano lo zio buontempone (il proverbiale boomer) che alle cene di famiglia vorrebbe far ridere con le stesse battute con cui nei ruggenti anni ’80 faceva sbellicare gli amici, ma finisce per sfoderare un’ironia che oggi raccoglie solo imbarazzo mascherato da timidi colpetti di tosse. Non mancano di impegno e nemmeno di budget, semplicemente queste situation comedy non hanno saputo cogliere lo spirito dell’epoca che dovrebbero rappresentare e hanno riproposto degli schemi già consolidati, in voga qualche decennio fa, e dei cliché che facevano ridere una volta, ma che oggi risultano superati e in alcuni casi offensivi.
Vediamo 5 sit-com, come The Ranch, che sono nate con la data di scadenza scaduta.
The Ranch (2016-2020)
Sarà per colpa dell’ambientazione country polverosa oppure per i dialoghi divertenti ma non così tanto originali, ad ogni modo The Ranch aveva tutto per diventare uno show memorabile, invece, ha lasciato molti di noi con la bocca asciutta. Indubbiamente regala un intrattenimento leggero e divertente; i personaggi di Rooster e Beau Bennett sono scritti e interpretati in maniera favolosa, eppure The Ranch appare troppo datata per essere stata concepita nel 2016. Scommettiamo che se fosse uscita negli anni ’90 sarebbe diventata un cult senza precedenti e un punto di riferimento per le nuove commedie. Si tratta di una situation comedy di quattro stagioni creata da Don Reo e Jim Patterson per Netflix ed è interpretata da un cast di tutto rispetto: Ashton Kutcher, Danny Masterson, Debra Winger e Sam Elliott. Sulla base di questi presupposti entusiasmanti e sulle grandi aspettative che Netflix le aveva riservato, in questo articolo ci eravamo già chiesti se la sit-com avrebbe meritato maggiore considerazione.
La serie non ha difetti imperdonabili – anche se in alcuni casi le situazioni appaiono citofonate e superficiali – quello che disturba è la sensazione di assistere a uno show già visto che ricalca le dinamiche delle sit-com in voga negli anni ’80 e ’90. Per gli amanti del vintage che inseguono quelle atmosfere e quel tipo di umorismo, la serie potrebbe rivelarsi una piacevole sorpresa. I trentenni falliti che non riescono a realizzarsi, la mamma che tiene l’erba in giardino e il padre burbero, repubblicano ma dal cuore tenero avrebbero lasciato in un fiume di risate lo spettatore di qualche decennio fa, ma al giorno d’oggi risultano espedienti consumati che strappano qualche risata nostalgica e malinconica, ma nulla di più. Un vero peccato perché gli ingredienti per diventare una comedy cult li aveva, purtroppo però sembrano essere scaduti nel lontano maggio 1995. Di sicuro anche l’addio improvviso avvenuto alla fine della terza stagione dell’attore Danny Masterson – implicato in uno scandalo – non ha aiutato la causa.
Call Me Kat (2021 – in produzione)
Prodotta da Jim Parsons e Mayim Bialik (ebbene sì, gli Shamy di The Big Bang Theory sono tornati insieme), Call Me Kat è una sit-com di casa Fox basata sulla serie tv britannica Miranda, e che a tratti ricorda Fleabag. Mayim Bialik interpreta la protagonista Katherine, ma chiamatela Kat: un nome che certamente allude alla parola cat/gatto. Si tratta di una donna di 39 anni che lotta contro la società e contro una madre tradizionalista, Sheila (Swoosie Kurtz), per affermare se stessa e vivere come meglio crede ricercando la felicità nelle piccole cose. Invece di spendere i soldi che i suoi genitori hanno messo da parte per il suo matrimonio, la donna decide di aprire un Cat-café – un locale a tema gatto e pieno di gatti – a Louisville (Kentucky). Kat è dunque la versione 2.0 della “gattara” che in questa storia evolve nella versione “gattara” imprenditrice. Anche in questo caso, come nel caso di The Ranch, sembra di avere un déjà-vu. La serie è intrisa del tipico umorismo della vecchia scuola, supportato dal duo comico di attori maturi, Swoosie Kurtz e Leslie Jordan (nel ruolo di Phil), che provano a farci ridere riciclando delle vecchie battute e sfoggiano degli atteggiamenti giovanili che però generano imbarazzo e monotonia.
La sit-com britannica a cui si ispira è del 2009, eppure la versione originale appare molto più moderna rispetto a Call Me Kat che nel riadattamento ha ignorato il background culturale e il senso dello humor originari, diventando così la versione annacquata e anacronistica di una serie tv molto amata. Quando Kat parla con noi attraverso la telecamera, commentando le sue battute o quelle degli altri tra le risate finte di sottofondo, percepiamo solo disagio e vorremmo tanto che Sheldon Cooper arrivasse a porre fine all’impaccio. Nonostante le ottime premesse, l’esperimento ha deluso gli spettatori. Il giudizio del pubblico e della critica non ha avuto pietà, ad esempio Rotten Tomatoes ha definito la prima stagione:
Più una trovata che una sit-com, Call Me Kat seppellisce un’affascinante Mayim Bialik in una scatola di sabbia di battute sdentate e caratterizzazioni superficiali.
Rotten Tomatoes
Call Your Mother (2021)
Call Your Mother è una sit-com americana multi-camera creata per ABC da Kari Lizer, un’attrice, regista e sceneggiatrice statunitense, già autrice di 13 episodi di Will & Grace. Nel cast troviamo Kyra Sedgwick (The Closer) nei panni della protagonista Jean Raines, un’insegnante in pensione; suo figlio 23enne Freddie Raines (Joey Bragg, un personaggio di Liv e Maddie), designer e tester di videogiochi, e sua sorella maggiore Jackie, interpretata dall’attrice Rachel Sennott (Ayo and Rachel Are Single). Si tratta di tre protagonisti dal background prevalentemente comico che offrono un assortimento interessante e promettente, eppure la serie non ha generato le risate sperate ed è stata cancellata dopo una sola stagione. La storia si presenta come un racconto esasperato della crisi di mezza età di una donna che, rimasta sola in casa dopo l’abbandono del nido dei suoi due figli, decide di raggiungerli in California senza preavviso.
I presupposti potrebbero apparire moderni, ma vengono resi in maniera macchiettistica e la crisi di mezza età viene privata delle componenti più interessanti, come gli approfondimenti emotivi e idiosincratici che meriterebbe l’argomento. Il personaggio di Jean, che dovrebbe reggere l’intera impalcatura comica, è insipido e manca di verve e arguzia. Una madre dell’Iowa poco avvezza alle grandi metropoli che si perde non appena atterra all’aeroporto, che dice le parolacce, ma che si dimostra sempre esageratamente apprensiva, risulta essere invadente e fastidiosa piuttosto che divertente. La comicità doveva nascere proprio da questo contrasto generazionale, eppure resta tutto in superfice a fluttuare in un mare di battute già sentite e dinamiche prevedibili. Nell’intera stagione non succede quasi nulla, solo un susseguirsi di situazioni antiquate, incentrate sul fatto che un’ultra 50enne non è in grado di capire i giovani e i social media. L’unica cosa divertente è vedere una mamma apprensiva che vorrebbe continuare ad allattare i suoi figli anche da adulti in uno show statunitense: la testimonianza che forse non siamo solo noi italiani, considerati dei mammoni impenitenti, ad avere le mamme più soffocanti del mondo.
We Are Men (2013)
Quattro uomini single, quatto ottimi attori, un mezzo disastro. Quando pensavamo di aver superato Sex and The City, ecco che arriva una versione “al maschile” a ribadire che stare da soli è brutto. Mentre Carrie Bradshaw lo suggeriva a cavallo degli anni 2000, We Are Man decide di riaprire una questione, ormai superata, proponendo una sit-com che nel 2013 non avrebbe mai dovuto vedere la luce del Sole. Creata da Rob Greenberg (Frasier), la vicenda vede protagonisti Christopher Nicholas Smith (Paranormal Activity 3 più frequenti apparizioni nelle comedy più popolari), Tony Shalhoub (Monk e The Marvelous Mrs. Maisel), Jerry O’Connell (il fratello di Sheldon Cooper in The Big Bang Theory), Kal Penn (Dr. House) nel ruolo di tre uomini divorziati e uno appena lasciato all’altare che si ritrovano a vivere a Hollywood in un complesso residenziale con piscina dove sono tutti scapoli. La serie è andata in onda sulla CBS ed è stata immediatamente cancellata per mancanza di ascolti.
Tra battute prevedibili in stile cabaret anni ’80 e uomini adulti che sanno solo lamentarsi e si comportano come degli adolescenti ossessionati dal sesso, ridere diventa impossibile. We Are Men, a partire dal titolo, si presenta come una storia farcita di stereotipi sul mondo maschile, su come vive il matrimonio e il suo fallimento, sui tradimenti, sugli uomini che non capiscono le donne, e viceversa, e offre tutta la gamma del luogo comune sentimentale che avrebbe fatto ridere lo spettatore degli anni ’10 del secolo scorso, ma allo spettatore del XXI secolo tutto sembra annacquato di tristezza. Le situazioni pescano dalla tradizione cinematografica e seriale, da Il laureato a Friends, ma senza aggiungere alcun tipo di originalità. Il messaggio che trapela è che gli uomini senza una moglie sono perduti, degli scarti della società definiti solo dall’essere stati mollati. Purtroppo non importa quanto sia brillante il cast, la scrittura soffre di un umorismo stantio che rivanga quelle battute fastidiose fondate sui cliché della crisi di mezza che nel 2013 avevamo già sentito fino alla nausea.
The Great Indoors (2016-2017)
The Great Indoors parla dei millennial, si rivolge ai millennial, ma lo fa con la voce di un vero e proprio boomer. Creata da Mike Gibbons (Tosh.0 di Comedy Central) la sit-com si presenta come la controparte sciapa e superficiale a metà tra quel gioiello snobbatissimo di Silicon Valley e della celebre The Big Bang Theory. Jack Gordon (l’attore Joel McHale di Community) è un reporter affermato della rivista cartacea Outdoor Limits che sta compiendo il salto al digitale. Dopo una carriera passata a esplorare il mondo (e lo capiamo poiché il protagonista fa il suo ingresso trionfale in ufficio vestito come se dovesse scalare l’Everest), il suo capo Roland (Stephen Fry) colloca Jack a capo del progetto con l’ingrato compito di supervisionare i millennial che compongono il team editoriale. Lo scontro generazionale tra Generazione X e Millennial dovrebbe essere il motore da cui scaturisce la comicità, invece tutto va a rotoli a partire dal pilot che propone una uno stereotipo sui giovani dopo l’altro.
La sit-com nasce per intrattenere un pubblico giovane che però non ha trovato nulla da ridere nel modo in cui è stato rappresentato. Se l’intenzione della CBS era quella di conquistare gli under 35, senza alcun dubbio l’esperimento è fallito. Se lo scopo, invece, era quello di rafforzare i luoghi comuni che vedono le nuove generazioni come un mucchio di incapaci permalosi e dipendenti dai social media che non sanno come vivere nel mondo analogico, che non hanno voglia di fare la gavetta e si aspettano di ricevere delle promozioni senza meritarlo, allora la serie ha centrato il suo obiettivo. Il protagonista, Jack, non perde occasione per sminuire il suo team ridicolizzando i loro gusti e il loro punto di vista. Qualunque fossero le prospettive, The Great Indoors non fa altro che prendersi gioco dei millennial proponendo loro delle battute riuscite male, all’interno dei classici schemi comici anni ’90. Come per The Ranch, anche in questo caso si tratta di un vero spreco alla luce di un cast talentuoso e del mancato tentativo di esplorare l’argomento proponendo una riflessione autentica sulle difficoltà del lavoro multigenerazionale e delle sue lacune.
Queste erano 5 sit-com, come The Ranch, che purtroppo sono ricorse allo stereotipo datato per creare umorismo.
The Ranch e le altre sit-com di cui abbiamo parlato sono certamente simpatiche, strappano anche qualche sorriso, ma lo fanno offrendo un intrattenimento antiquato supportato da soluzioni anacronistiche e un umorismo vecchio stampo che nell’epoca in cui sono arrivate non funzionano più. E così, fin troppo spesso, si ritrovano a far ridere solo la traccia di risate che le accompagna in sottofondo.