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The Strain – La predominanza umana è una fiaba

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“A me date i vostri stanchi, i vostri poveri,

le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi,
i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate.
Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste,
e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata.”

 

Con l’orrore fiabesco di Giullermo Del Toro, c’è sempre quel familiare sentore di esserci imbattuti in un insegnamento morale tipico della favola.
Una favola che non avremmo mai potuto ammortizzare col guanciale del nostro letto, da bambini in cerca di un sibilo che accompagnasse il dormiveglia; una favola diversa, che un adulto può raccontare a un adulto senza il timore di veder dispersi concetti chiave dalla maschera troppo eccentrica.

Un cambio di regime avvenuto senza suffragio, una conquista avviata tacita ed esplosa poi, avente come mezzo l’egoismo e la sete di potere di chi avrebbe dovuto, al contrario, erigere una protezione al suo mondo.
Una presa di forza virulenta e subdola, che come ogni pestilenza ha ignorato la volontà umana; o che forse l’ha solo accelerata.
Questa conquista, nell’efferato quadro iperrealistico di vampiri ed ancestrali mali che sanno di leggenda, nel finale di questa terza stagione ha sublimato un messaggio sottile, rarefatto tanto è leggero, che meglio non poteva essere esposto: Eichorst, vicino al dominio ultimo, solcando la cristallina baia di Manhattan, pronuncia il verso finale del sonetto “The New Colossus” di Emma Lazarus (poetessa ebrea dell’Ottocento).

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Il piano di infiltrazione e dominio di Eichorst e del Maestro, sublimato in quelle parole, appare per un attimo un invito alla benevolenza, all’indulgenza ed allo spirito di aggregazione rivolto a chi è padrone di quelle terre ormai da tempi immemori: l’uomo.
Quella del Maestro è una missione violenta, ma che ha sempre somministrato col contagocce una parvenza di passo evolutivo della specie che ha il suo inizio in un atto di fede, ossia quello della tramutazione.
Tra bene e male oscilla un pendolo imparziale in The Strain, la linea è estremamente labile, ed il modo in cui Eichorst “vomita” le parole che compongono il sonetto assottiglia ancor di più quella già debole differenza.

La minaccia ha un progresso paurosamente più lineare (forse “naturale”) della resistenza umana, e questo rende la predominanza dell’uomo una melensa fiaba.

La resistenza dell’uomo è farraginosa, affannosa, a tratti estemporanea al punto da sembrare un innaturale tentativo di correggere una rotta naturalmente imposta.
Tanto è vero, la missione per debellare la minaccia è svolta, con andamento disperato, su tre fronti differenti: quello socio-politico (con la resistenza militare di Justine Feraldo), quello scientifico (con la ricerca di un antivirale di Ephraim Goodweather) e quello metafisico (con il tentativo di decodificazione dell’Occido Lumen da parte di Abraham Setrakian).
La realtà che il piano del Maestro sia una necessità per la razza diviene vivida passo dopo passo, e l’uomo è costretto a sotterrare in “una bara piena di umido terriccio” l’idea della propria esclusività sulla Terra.

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Prediligiamo l’illusione e il disegno della predominanza umana sulla Terra, al punto che appare come un automatismo ritenere salvifica la resistenza che l’uomo impone sulla “selezione naturale”.
In The Strain, l’uomo combatte una nemesi che, in quanto estranea, è identificata come “male” pur non avendo ancora espresso le proprie ragioni. Eppure le uniche ragioni egoistiche e malsane di cui abbiamo prova certa, di fatto, sono quelle imposte dall’uomo che si erge ad entità suprema, che nel tentativo di ricongiungersi col nemico cerca una scappatoia al giudizio finale; ironicamente, le motivazioni di un essere umano, quelle di Eldricht Palmer.

Nonostante tutto, l’avaro egoismo non risiede nell’ibrido che Palmer tende a creare con sé stesso; in contrapposizione a questo, The Strain pone un altro esempio di ibrido: quello naturale.
L’ibridazione tra natura biologica e dettami convenzionali che perfezionano l’uomo nel suo costrutto grazie (anche) all’intelligenza formano l’essere imperituro, l’immortale che affina la sua esistenza grazie al martirio, sacrificando sé stesso in qualsivoglia circostanza: quest’esempio è dato da Quinlan.

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È in questo senso che la perfezione è data dal compromesso, nella fiaba antropologica raccontata da Guillermo Del Toro.

 

La parabola costruita da quest’ultimo nella sua opera è discendente, e la suddetta “illusione della predominanza umana” è un diritto più forte dell’istinto di sopravvivenza: la necessità di reprimere l’epifania di una specie al fine di imporre la propria è solo l’arrogante ed atavica convinzione di poter rivendicare il mondo che abitiamo.
Uno spergiuro rimasticato che assume stavolta la forma del nevischio fiabesco.

Nonostante abbia forma diversa, addobbata da leggenda, la natura in The Strain scorre lungo gli argini e perpetua la sua missione selettiva.
Anche qui, uomo e natura hanno scopi affini: entrambi operano secondo la propria idea di provvidenza, entrambi puntano alla sopravvivenza.

Anche qui, però, uno dei due non conosce mezze misure.