Questa settimana si conclude il nostro viaggio al fianco di Jude Law con The Third Day, miniserie frutto della collaborazione tra Sky ed HBO. La prima parte della serie ci aveva davvero entusiasmato, mentre l’inizio della terza ci aveva lasciato con qualche dubbio e, questa volta, speravamo di sciogliere finalmente la matassa con le due puntate conclusive, andate in onda su Sky Atlantic lunedì 2 novembre.
Per tutta la durata di The Third Day siamo stati divorati dall’ansia e dall’inquietudine, in costante attesa di un qualcosa di indefinito.
“Cosa sta succedendo, cosa deve succedere?” queste le domande che ci hanno perseguitato nel corso della visione. Sembrava sempre che gli sceneggiatori ci stessero nascondendo qualcosa, ci aspettavamo un grande avvenimento, qualcosa di terribile e misterioso. Eppure non è successo niente, nella psicosi generale dell’Isola l’unica cosa che ci è rimasta tra le mani umide è l’eco del dolore e la sensazione di aver perso qualcosa.
Scopriamo che il simbolismo non è uno strumento per ricostruire la trama, il simbolismo è il vero protagonista. Tutto si riduce a simbolo, un simbolo che non ha un significato preciso ma che mira a riunire tutti gli elementi dell’umanità: la nascita, la morte, l’amore, l’ebrezza, il dolore e il lutto.
Al centro di tutto ci sono Sam ed Helen, due facce della stessa medaglia, due genitori che hanno perso un figlio e che gestiscono in maniera diversa il dolore della perdita. Sam si rifugia nella sua mente turbolenta e nelle distorsioni delle allucinazioni. La prima parte, a lui dedicata, riesce a far emergere con chiarezza questi sentimenti. Noi proviamo quello che prova Sam, ed è terribile (qui potete leggere la nostra recensione dei primi due episodi).
La seconda parte, invece, rispecchia Helen (Naomie Harris) e la sua fredda negazione del lutto. I colori sbiadiscono, il calore scivola via e percepiamo solo il disagio di essere al mondo.
La narrazione scorre via pesante, si trascina zoppicante verso una meta insoddisfacente, inappagante.
Di sicuro si tratta di una serie complessa e ambiziosa, forse troppo. La confezione è meravigliosa: la fotografia, i colori e l’attenzione maniacale per la luce e per dettagli sono pregevoli, questo è certo. The Third Day è una serie suggestiva, gestisce il nostro umore con assoluta facilità, a volte ci sembra quasi di sentire il vento rigarci la faccia e la salsedine incastrarsi tra i capelli, ma tutto questo è sufficiente a rendere la serie in questione una buona serie?
Anche i palati più raffinati necessitano di una trama godibile e di dialoghi di maggiore spessore. Guardando The Third Day è difficile non sentirsi a disagio con la visione, è difficile non pensare almeno una volta di mollare tutto e correre via da quel manipolo di fanatici che continuano a blaterare discorsi incomprensibili e pugnalarsi alle spalle. Anche i dialoghi sono piuttosto ripetitivi e, se nelle prime puntate risultavano a loro modo intriganti, giunti all’ultimo episodio risultano quasi esasperanti.
Sembra che tutti vogliano salvare l’Isola dimenticando di salvare se stessi. Vagano storditi e doloranti e ognuno di loro ambisce ad avere la soluzione in tasca ma è sempre una soluzione sbagliata. L’unica vera certezza è la necessità di scappare da quel luogo magico e inquietante.
The Third Day ci ipnotizza con gli effetti visivi ma in fin dei conti non ci lascia niente.
Abbiamo come la sensazione di trovarci di fronte a un prodotto a metà, giungiamo con fatica alla fine, proprio come Helen moribonda che attraversa il mare gelido per portare in salvo le due figlie. Per lei è un nuovo inizio e lo sottolinea anche la calda luce dell’alba, una luce che non è più di quel bianco disturbante e bruciato delle scorse puntate ma di un rosso tenero e aranciato, sereno.
Bisogna fare molta attenzione però: l’arte spesso si camuffa con il simbolo, si crogiola nell’arzigogolo delle facciate e comunica in maniera efficace a un pubblico di poche anime sensibili, capaci di reinterpretare quel simbolo estrapolandone un significato personale e puro. Si tratta, però, di processi artistici molto complessi e delicati, che solo in rarissimi casi riescono a raggiungere il risultato sperato senza rimanere vittime del simbolismo stesso.
Ebbene, è evidente che i produttori hanno profuso tanto impegno nel mettere in piedi un prodotto esteticamente impeccabile ma che, nella sostanza, sembra aver perso di vista il significato, ostaggio di un’infrastruttura macchinosa e purtroppo sterile.