Glenn,
questa notte ha piovuto. Il rumore era forte sul tetto della casa, così ho avuto una scusa per aprire gli occhi e restare sveglia finché il temporale non è passato; sai, detesto dormire.
Perché ormai la paura di venire morsa nel sonno da un Vagante sta svanendo: sì, da quando abbiamo trovato Alexandria tutto il terrore degli scorsi anni appare sfocato, più difficile da distinguere. Come se cercassi di guardare una stanza piena di oggetti dal buco delle serratura: le sensazioni una volta chiare si perdono nell’insieme.
Ma continuo a odiare la notte perché il riposo cancella la realtà: c’è una parte inconscia di me che non vede il presente, che è rimasta attaccata alle abitudini della vecchia vita, della fattoria, di mio padre… E che mentre dormo mi riporta laggiù.
Spesso temo anche di chiudere gli occhi e risvegliarmi credendo che tu, Glenn, sia qui.
I miei sogni sono ancora pieni di ricordi che preferirei dimenticare e nello stesso tempo non riesco a lasciare andare: un’estate torrida, la prima, solitaria estate dell’apocalisse del nostro mondo; un segreto nascosto nel fienile là in mezzo ai campi, che ti avevo fatto giurare di mantenere e che tu, già allora più grande di me, rivelasti.
Che follia è stata, quella del fienile! Un edificio alto, rustico e invaso dal sole, simbolo della tranquilla esistenza del contadino, per noi era diventato l’involucro della verità che non potevamo accettare. La prigione delle persone ormai perdute, che non eravamo capaci di salutare.
Rompendo la promessa ci hai obbligati ad affrontare il dolore, e tutti siamo stati liberi.
Ripenso all’odore di erba, di pollaio e di abbandono che circondava la mia casa proprio nei giorni del nostro flirtare, litigare e fare sesso come ragazzini stupidi: l’assurda convinzione che avevo di poter giocare con l’ingenuo Glenn, la condiscendenza un po’ sadica e perversa con cui ti volevo vicino solo per poi spingerti più lontano con una parola arrabbiata.
Risento il tocco triste della terra, la terra che restava ferma sotto i nostri piedi come a dirci che tanto presto o tardi ci avrebbe ricoperti tutti; solo allora ce ne rendevamo davvero conto…
Chissà se anche tu allora rimpiangevi quella sorta d’immortalità di cui avevamo goduto in passato, quando sapevamo di dover un giorno morire, ma in realtà non lo sapevamo perché si trattava sempre di domani e mai di oggi.
Invece a un tratto il pericolo dei cadaveri ambulanti oltre il recinto era oggi, camminare a piedi nudi sul prato e domandarsi se sarebbe stata l’ultima volta era oggi, la mia mano su di te, i tuoi occhi scuri erano malinconicamente e gloriosamente oggi.
I tuoi occhi a mandorla mi parlavano di cose esotiche. Era un’illusione, lo sapevo che c’era ben poco di orientale nei cappellini a visiera che indossavi, nella tua passione per i videogiochi e nelle pizze che eri solito consegnare per guadagnarti da vivere; eravamo cresciuti nello stesso Paese, eppure i lineamenti asiatici che scoprivo sotto alle dita sfiorandoti mi ricordavano che esisteva un universo intero al di fuori della fattoria: il mondo che da bambina avevo desiderato esplorare, quel mondo che avevo creduto di possedere quando ero andata via di casa per frequentare il college. Che era distrutto, e che non avrei osservato mai più.
E tu, Glenn, nel tuo essere semplicemente diverso mi dicevi ancora che non sapevo niente, non potevo capire. E se non potevo capire, significava che forse la desolazione e la sofferenza attorno a me avevano un senso: non lo scorgevo, eppure guardandoti percepivo la prova della sua esistenza.
E poi, sai, sei morto.
Ho camminato a caso nell’aria immobile di stasera, mentre occhi inquieti mi spiavano dalle casette; ero stanca come dopo una giornata di lavoro, ma non avevo la fretta di chi vuole trovare presto una stanza calda, un letto e un po’ di riposo.
Ho raggiunto quella parte della città che è solo una striscia di terra smossa, piena di piccole croci che nascondono piccoli corpi: non riuscivo a sentirti laggiù, e ne ero felice.
Ti immagino sorridere in un campo di grano al sole, come se tu fossi tanto tanto lontano e io guardassi le fotografie di un viaggio, leggendo sul bordo bianco i saluti scritti dalla tua mano: “sto bene, e qui è tutto bello, ma mi manchi… Glenn“.
E accarezzo la parte di te che mi cresce ancora dentro, perché mi hai detto che la vita continua e che proprio questa è la nostra grande forza.
La forza che fingo di avere adesso, mentre spiove lentamente sulle tombe.
Un rombo echeggia in lontananza, arrestandosi proprio al di là del recinto; l’ansia mi assale, ho paura che quegli uomini orribili siano venuti per me, per distruggere anche l’ultima briciola di noi.
Ma poi delle grida, che sembrano… Sì, di felicità.
Mi volto, muovo qualche passo avanti, e lo vedo: Daryl che scende da una moto, Daryl sfinito, sciupato, arrabbiato, eppure Daryl vivo.
Allora è vero che da Negan si può anche fuggire; è vero che si può resistere.
Lui mi nota e mi fissa con gli occhi azzurri affilati che iniziano a inumidirsi, sebbene nessun altro se ne accorga: e in questo sguardo ci sei tu, in piedi in silenzio nello spazio che ci separa. Il tuo ricordo, il senso di colpa, delle scuse impronunciabili che hanno significato solo se restano qui, tra noi tre.
Daryl è riuscito a tornare. Tutto può ancora ricominciare.