Il mondo è cambiato, e con esso la guerra.
Il mondo è cambiato, e con esso anche Rick.
E’ stato così per quell’attimo che dura un’eternità, per quel tragitto del percorso che ti convince, con i suoi viandanti e le loro novelle, che ciò è necessario.
Rick è stato convinto, da quella leva in grado di capovolgere il mondo, che cambiare fosse una condizione unicum.
L’ultima alternativa.
Quella stessa leva che ha la forza del silenzio assordante, quello che strangola i pensieri: l’assenza di certezze.
Poi, però, Rick ha capito che esiste una costante che rende il giusto equilibrio, che deve esistere qualcosa che resti fermo mentre il mondo continua a girare.
Ciò che pretende di rimanere in quel centro gravitazionale che risalta la propria forza e non si permette di dimenticare la sua natura.
Gli interpreti non cambiano.
L’uomo non cambia. Si sforza di farlo, ma poi ci ricade.
Sdraiato nel vorticoso circolo vizioso che stanca ma non sfinisce, ripercorre perpetuamente un percorso che vibra attraverso il movimento delle tese e luculliane corde della memoria.
A quel punto, e solo allora, Rick ha realizzato che insorgere come despota, rinascendo in un mondo di morti in cui la resurrezione non desta più stupore oramai, non è l’epiteto di un leader, bensì il granciporro di un codardo.
Rick ha capito che quello che può sembrare un edificante consiglio, quello di falsi profeti convinti che la soluzione di cambiare perdendo sé stessi sia l’unica finestra che permetta di evadere da una stanza senza porte, è nient’altro che un tragico suicidio morale.
Che credere a chi ti dice che c’è “una sola soluzione per adattarsi“, equivale ad accettare il sedicente abbraccio del male.
Perché in un mondo in cui Dio non parla, gli si può far dire ciò che si vuole.
Avete in mente la morbida finezza di un lungo e pallido filo di lana di una lunghezza pletorica, del quale non riusciamo addirittura a vedere la fine?
Quel filo si è arrotolato a causa di quell’onesto disordine che genera l’incertezza, fino a formare un enorme, ingarbugliato, gomitolo.
Quel gomitolo è Rick, al termine delle sei stagioni in cui siamo stati in grado di accompagnare il suo elettrocardiogramma di sensazioni e repentini drammi.
Dal momento in cui si desta da quel tempistico coma, dal segmento di sensazione provata nel momento in cui volge il primo, trasecolato e compassionevole sguardo al nuovo mondo ad oggi, un uragano ha stravolto la linearità di quel filo.
Il concitato flusso di emozioni forma un percorso chiaramente identificabile come stadi attraverso i quali Rick si trova a passare: dalla compassione passa alla paura, arrivando così alla violenza ed il conseguente odio, per giungere alla deleteria vendetta.
I principi morali totalmente ribaltati dal contesto hanno portato Rick a “saltare” da un’immedesimazione all’altra, in cerca di conferme, in figure che quelle conferme sembravano incarnarle (prima Dale, poi Hershel) per finire col diventare ciò che abbiamo sempre saputo essere più adatto a quel mondo sin dall’inizio (quella simbiosi con Shane), diventando però qualcosa di perfino peggiore seppur nella sua adeguatezza.
Entrando nello stadio deleterio e nefasto, nonché fine a sé stesso, della vendetta.
E’ proprio la vendetta l’istanza bollente nella quale si è reso ignifugo per non provare dolore, quella nella quale si trova nel momento in cui le rotule delle sue ginocchia affossano il morbido ed illune terriccio che ospita il suo gruppo al cospetto di Negan.
Da qui, quel cammino che l’ha portato ad essere qualcosa nel nulla, ricomincia.
Ma a ritroso.
– «Io ti ucciderò. Non oggi, non domani, ma io ti ucciderò.»
La discesa (o ascesa?) verso le origini ricomincia dalla vendetta, in una promessa sputata con represso dolore a denti stretti.
Poi il “battesimo di fuoco” di Negan ha inizio, e con forza lo spinge immediatamente nel secondo girone del suo cammino, con una prova: gli chiede di farsi giustizia da solo, di prendere l’ascia ed ucciderlo ponendo fine a tutto, in quello stesso istante.
In quell’attimo di sciocca illusione, si sublima l’odio di Rick.
Anche quello, come da copione, viene terribilmente abortito e devitalizzato dall’indolente senso di impotenza che lo spinge a continuare a ritroso, ancora, per poter arrivare all’uscita di un imbuto dalle superfici così sdrucciolevoli da non permettere la risalita.
– «Pensa a ciò che è successo, ed a ciò che potrebbe ancora succedere. Portami la mia ascia, Rick.»
Rick si sforza di non ricordare, ma le immagini pizzicano come salmastre e chiedono prepotenti la sua attenzione, con le parole di Negan che echeggiano nella sua testa.
Ricorda, e nel farlo capisce forse che due morti non sono serviti ad educare venti persone, bensì una soltanto.
– «Sì, sono sicuro che voi abbiate capito. Non sono sicuro che l’abbia fatto lui.»
Lui è il solo obiettivo di Negan, ed a dimostrarlo è quel profanante schizzo di sangue che parte dal sadismo sublimato in quella mazza chiodata (una sublimazione rafforzata dall’idea di un nome annoverato ad un oggetto) e si infrange sul volto di Rick, che umilia la sua posizione di leader.
Rick torna, in questo terzo substrato, alla violenza.
Torna a praticarla sull’unico capro espiatorio che gli permetta uno sfogo. Lo stesso sfogo che ha catalizzato quel percorso nel senso opposto portandolo all’odio, ma che ora torna, in senso unico, in direzione della paura.
Torna ad impattare tutta la sua rabbia sui vaganti, dopo aver recuperato l’ascia, nel tentativo di tornare da quello che non riesce ancora a riconoscere come suo padrone.
– «Rick, Rick, Rick. Tu rendi conto a me. Tu lavori per me. Tu appartieni a me.»
Il successivo passo, dalla violenza alla paura, è breve ed è il risultato dell’ennesimo sberleffo di un padrone che non accetta mezze misure: Negan “slega” definitivamente Rick nel momento in cui lo costringe a sacrificare il braccio di suo figlio in una rapsodia dalle analogie religiose.
Rick torna alla paura, e Negan ha concluso.
Seguendo i suoi stessi dettami, senza compromessi, è sopraggiunta una personalità che, in pochi minuti, rende a Rick coscienza del fatto che per quanto si possa cambiare, il male ontologico non si acquisisce ma si possiede sempiterno, ed è qualcosa di ben diverso da ciò che credeva essere diventato.
Qualcosa che non gli appartiene.
Negan ha srotolato e riallineato quel filo mostrando a Rick qual è il vero opposto di sé al quale stava indirettamente cercando di arrivare, e ciò l’ha letteralmente distrutto.
Il “battesimo di fuoco” di Negan ha funto da rituale che l’ha riportato a quello sguardo che appartiene alla sua natura, quello che ha mosso tutte le scelte meno adeguate ma paradossalmente più giuste.
Rick è tornato alla paura, ma ha un ultimo passaggio, quello per la compassione, ancora da compiere.
Negli ultimi passi che affondano su un campo di battaglia che non ha visto uno scontro, ma solo una fazione ingoiare l’altra con la facilità di chi fa a gara nel deserto, risiedono gambe sfinite che tremano come trespoli sulla ghiaia, sfibrate dall’energia necessaria a risalire la china lungo il processo utile a naturalizzarle nuovamente.
Avvicinandosi al camper, Rick guarda il vagante.
In questo esatto punto, è giusto porre uno snodo, una pluralità quantistica.
–Rick inarca il labbro come ad imitare sé stesso in quel proverbiale cenno di odio insito che aspetta di essere lanciato oltre il prolungamento di un violento colpo. Allontanandosi dal camper, si avvicina al freddo corpo smorto del vagante. Punta l’ascia e, col disumano ed insensibile senso dell’obiettivo, scaglia un colpo netto alla molle fronte del non-morto.–
E’ giusto che riavvolgiate al punto dello snodo, perché questo non è ciò che può accadere. Non più.
Rick volge l’ultimo sguardo al vagante.
Si volta ed entra nel furgone perché è giusto così, in un mondo che per quanto diverso “non deve cambiare noi stessi“.
Esattamente come, prima di conoscerlo quel mondo, Rick guarda il mezzo busto del vagante strisciante, monta in sella alla bici e se ne va.