Cosa succederebbe se a governare la nazione più potente del mondo ci fossero le persone più qualificate in assoluto? E se quelle stesse persone, oltre a possedere tutte le competenze possibili, fossero anche pure di cuore, motivate solo dalla necessità di fare degli Stati Uniti d’America un luogo migliore? Sappiamo che domande di questo tipo risulterebbero nel mondo reale il delirio utopico di qualche sognatore senza speranza e che solo in rarissime occasioni si sono concretizzate davvero, eppure The West Wing (qui vi raccontiamo perché dovreste assolutamente recuperarla) parte proprio da questi interrogativi per cercare di raccontare una storia che vede l’utopia politica come una stella polare verso cui fare rotta.
Durante i 7 anni della sua messa in onda su NBC – dal 1999 al 2006 – The West Wing ha rappresentato per i suoi spettatori un porto sicuro, un riparo davanti agli scandali morali, militari o più prettamente politici che continuavano a travolgere l’establishment statunitense senza fare distinzioni di appartenenza partitica. Perché se è vero che per anni The West Wing è stata considerata in patria come la risposta dell’élite culturale democratica alle ombre della presidenza repubblicana Bush, allo stesso tempo è giusto ricordare che la prima stagione della serie è andata in onda nel 1999 – prima che George W. Bush fosse eletto – sull’onda dello scandalo Levinsky che aveva monopolizzato l’attenzione pubblica durante gli ultimi anni della presidenza del democratico Bill Clinton. Dunque la definizione di The West Wing come semplice reazione di una parte politica all’operato della parte avversaria, con l’obiettivo di mostrare l’abisso morale e la differenza nella capacità di governo tra le due, è non solo riduttiva, ma anche fuorviante.
Perché se è vero che la competizione tra i due principali partiti del sistema politico americano viene integrata nella serie e cattura presto lo spettatore, imprigionandone l’attenzione nell’avvicendarsi di scontri ideologici e pratici che hanno luogo in decine di puntate di The West Wing, in nessun momento vi è una demonizzazione assoluta della controparte. Infatti i protagonisti della serie, dai membri del cast principale fino a guest star che magari incontriamo per qualche minuto e poi non vedremo più, sono persone prima che politici, anche se alle volte sono costretti a sacrificare la loro parte più umana e personale in cambio del bene del paese. E poco importa l’appartenenza partitica, perché i buoni – coloro che sono disposti a rinunciare al proprio tornaconto personale per un bene superiore – si trovano da entrambi i lati dello schieramento partitico, non diversamente da quanto accade per gli egoisti, o per i disillusi o ancora per coloro che ormai privi di ogni moralità si muovono nel mondo cercando di accaparrare tutto quello su cui riescono a mettere le mani.
Perciò se è vero che vi è in The West Wing un’anima utopica, che vede nella squadra di governo del Presidente Josiah ‘Jed’ Bartlet la sua più compiuta rappresentazione, è anche vero che l’ideale di buon governo a cui la serie cerca di rifarsi è in continua tensione con il lato più umano e realistico dei personaggi e delle dinamiche di cui si fanno protagonisti. Perché essere orientati al bene comune, possedere la migliore delle educazioni o persino avere vinto un premio Nobel – come nel caso del Presidente Bartlet – non vuol dire essere necessariamente nel giusto. Anzi, quello che spesso The West Wing ci ricorda è che le buone intenzioni non si traducono in buone azioni e che non sempre l’idea stessa di giusto o sbagliato ha un suo corrispondente nel mondo reale.
E allora quell’utopia che The West Wing sembra essere in partenza si rivela essere in realtà fuori dalla portata persino di un’America fittizia, governata da un Presidente dalla moralità irreprensibile e con qualifiche impareggiabili, che si è circondato delle menti più brillanti e meno auto-interessate esistenti nel paese. Per quanto utopico possa sembrare l’assunto di partenza della serie, presto anche il migliore dei mondi possibili si rivela per quello che è: umano. E gli esseri umani, indipendentemente dalle loro intenzioni, sono creature profondamente imperfette, profondamente diverse, mosse da passioni e interessi contrastanti, ciascuno con una propria visione di cosa significhi il bene e di come si debba raggiungerlo. Non importa allora che Bartlet, Leo, C.J., Sam, Josh e Toby siano tutti disposti a sacrificare se stessi e la propria vita in nome di un bene superiore, il bene dell’America, perché la verità è che rimarrà sempre una parte del paese – del mondo – che vedrà il loro sacrificio come contrario a tutto ciò che vorrebbero venisse invece realizzato.
Quello di The West Wing diventa allora un gioco delle parti in cui – sebbene sia chiara la predilezione del creatore Aaron Sorkin e di buona parte del pubblico della serie per lo schieramento democratico – a ogni personaggio viene data la possibilità di mostrare quali sono le sue ragioni, quali gli elementi che si celano dietro a una determinata visione del mondo. La serie che porta in scena l’ideale mai del tutto sopito in Occidente del “governo dei migliori” ci mostra che anche quando questo è in carica e agisce immancabilmente perseguendo quanto ritiene essere il bene superiore, il mondo resta comunque un posto in cui ampio spazio è riservato al dolore, all’errore, allo scontro, all’ingiustizia. Allora è forse qui che ci rendiamo conto che, pur nel suo essere un’utopia politica, The West Wing rivela l’impossibilità della perfezione, della pace. E questo ci fa paura. Eppure ciò che permane dalla visione della serie, ancora più del pressante dilemma etico che sta alla base della narrazione, è il senso di speranza che alimenta l’azione dei protagonisti e che rappresenta la vera utopia di The West Wing: è lo sguardo orientato al domani, la scelta consapevole di non smettere di combattere per trasformare il mondo in un posto migliore per tutti.