Quando quest’estate la prima stagione di The White Lotus si è conquistata una pioggia di candidature ai premi Emmy 2022, la prima vera reazione in tutto il mondo, e persino negli Stati Uniti, è stata di confusione. Uscita circa un anno prima rispetto al giorno in cui le nomination sono state annunciato, la serie HBO creata da Mike White aveva avuto relativamente successo e si era conquistata un pubblico fedelissimo, ma era di fatto stata presentata come una serie di nicchia e tale è rimasta a lungo, finché due fattori l’hanno trasformata nel giro di poche settimane in un instant cult. Oltre ai già citati premi Emmy, che hanno reso noto il nome di questa straordinaria produzione anche al di fuori di una nicchia di spettatori adoranti, bisogna anche considerare l’uscita a distanza di poche settimane daii premi della seconda stagione di The White Lotus, ambientata a Taormina e andata in onda in Italia su Sky quasi in contemporanea con gli Stati Uniti.
L’arrivo di The White Lotus 2, con un cast e una storia completamente nuovi rispetto alla prima stagione (con la sola esclusione dell’immensa Jennifer Coolidge, che torna a vestire i meravigliosi panni di Tanya che le sono valsi la vittoria di un premio Emmy), è stato accompagnato da un clamore mediatico forse inaspettato: l’improvvisa e tardiva attenzione guadagnata dal capitolo precedente ha infatti fatto sì che questa nuova rappresentazione patinata del lato oscuro del sogno americano fosse attesa ogni settimana con più anticipazione di quella precedente.
Perché la verità è che, senza che ci sia ben chiaro come, The White Lotus è capace di mettere in scena un universo di disagio, superficialità e ambizioni rovinose dal quale è impossibile staccare gli occhi.
E se quella prima stagione ci aveva conquistati, portando in scena un ritratto del privilegio amaro e sagace e sconvolgendo tutte le regole classiche della grammatica televisiva, è il secondo capitolo di The White Lotus a consacrare definitivamente la serie, dimostrando che non ci troviamo soltanto davanti a una produzione brillante: stiamo guardando un instant cult, come non ne vedevamo forse dai tempi di Fleabag.
Già la stagione hawaiana della produzione HBO era un piccolo gioiello sconvolgente, con un cast di primo livello che includeva tra gli altri Sidney Sweeney, Connie Britton, Jennifer Coolidge e Alexandra Daddario, ma la sua profonda atipicità aveva avuto un effetto inizialmente respingente sul grande pubblico. In fondo è più che comprensibile, perché quando una serie viene presentata come un thriller e poi ci si trova davanti a intere puntate nelle quali non si assiste a nulla se non a dialoghi surreali e situazioni di profondo disagio, una parte degli spettatori si sente inevitabilmente tradita. Eppure, sebbene non lo faccia dal primo istante, The White Lotus mette presto le cose in chiaro: quello dell’omicidio iniziale è solo un pretesto per raccontare tutt’altro, il simbolo degli estremi a cui si può arrivare quando si è talmente assorbiti dalla propria bolla di privilegio, desiderio e dolore da smettere di considerare gli altri come persone.
La ricetta portata in scena dalla serie HBO è talmente inedita che, durante la prima stagione, a regnare nello spettatore era un senso di confusione supremo, quasi fosse impossibile abituarsi all’idea di stare guardando qualcosa di completamente diverso da quanto ci si sarebbe aspettati. È l’essenza stessa di The White Lotus, che si rifiuta di obbedire a una qualsivoglia logica televisiva e piuttosto si trasforma in un palcoscenico dove ognuno dei personaggi porta in scena la sua recita, che dev’essere tanto più convincente per se stessi che per gli altri. Qualcosa di inedito ed estraniante, perché nel raccontare la vacuità dell’esperienza umana quando questa si trasforma in una recita, la serie antologica di Mike White riesce in qualche modo a parlare a chiunque, a far cadere il pubblico in uno stato di ipnosi collettiva dal quale uscire di rivela più complicato del previsto.
Alla bellezza delle ambientazione, allo sfarzo dei vestiti e delle vite dei protagonisti, così distanti dalla realtà di tutti i giorni, fa da contrappeso una lettura così minuziosa dei desideri, dei dolori e delle ambizioni umane da rendere The White Lotus una delle opere sociologiche più riuscite nella storia della televisione.
Guardare la serie, disponibile integralmente su Sky, è un po’ come guardare un disastro al rallentatore, morbosamente attratti dall’imminente tragedia e incapaci di staccare gli occhi dallo schermo. The White Lotus, che con la prima stagione ci aveva dimostrato di essere una delle novità più travolgenti della televisione recente, con questo secondo capitolo ambientato in Italia, forte del sostegno di un pubblico ora più vasto e abituato alla sua formula inedita e micidiale, è stata capace di fare l’incredibile: ha riportato in voga con prepotenza la cosiddetta appointment television. Infatti, nell’anno di House of the Dragon e di Gli Anelli del Potere, nell’era delle piattaforme streaming e del consumo on demand, questa produzione HBO nata come estremamente di nicchia è riuscita a convincere milioni di statunitensi a sedersi tutti davanti alla tv alla stessa ora, per scoprire insieme cosa sarebbe successo a Tanya, Valentina (una Sabrina Impacciatore che sta facendo impazzire gli Stati Uniti), Daphne e tutti gli altri assurdi personaggi che popolano il lussuoso micro-cosmo di The White Lotus.
Il che è già un risultato incredibile nel panorama televisivo contemporaneo, ma lo è ancora di più se si considera che nella produzione HBO disponibile su Sky la trama è un elemento secondario, mentre a fare da padroni sono i dialoghi impeccabili e il disagio esistenziale che permea nelle interazioni tra i protagonisti. Un simile successo, all’apparenza inspiegabile eppure assolutamente meritato, è ciò che consacra il definitivo status di instant cult di The White Lotus, una produzione talmente trasversale nel suo affermarsi da riuscire a rendere persino interpreti italiane come Sabrina Impacciatore, Beatrice Grannò e Simona Tabasco delle superstar a Hollywood.
E se è vero che parole come cult o capolavoro risultano ormai inflazionate nel mondo della cultura contemporanea e hanno perso un po’ di quell’aura di sacralità che le accompagnava un tempo, il caso The White Lotus è servito anche a questo, a ricordare al pubblico cos’è davvero un cult e cos’è davvero un capolavoro.
Quello portato sulla scena dalla serie di Mike White è un vero terremoto, un capovolgimento di tutto ciò che ci si aspetterebbe da una produzione che segue le logiche della televisione moderna: niente eroi né anti-eroi, una trama fumosa, dialoghi meravigliosi ma spesso inconcludenti, una fotografia luminosa e dai toni caldissimi che contrasta con tutto quanto appare sullo schermo. Ciò che sulla carta appariva come un potenziale disastro, una volta portato sullo schermo si è rivelato invece molto più di una bella serie, ma addirittura un prodotto che si è guadagnato dopo soli sei episodi uno status di cult, consolidato poi con questa seconda stagione persino al di sopra delle aspettative.
Un gioiello tale per cui, anche se si tratta di una produzione antologica, già non vediamo l’ora di immergerci nella terza stagione, della quale non sappiamo chi saranno i protagonisti né quale sarà l’ambientazione, ma di cui già sentiamo l’esigenza. Perché quando arriva in televisione qualcosa come The White Lotus, che rivoluziona tutti i parametri predefiniti della serialità, ci vuole davvero poco prima di diventarne completamente dipendenti.