Ok, può sembrare una provocazione, forse lo è, ma seguitemi un momento e ditemi se non converrebbe far vedere ai marziani The White Lotus. Se non altro si divertirebbero.
Anno 1977. Da Cape Canaveral, nota sede dello Space Center della NASA, partono due sonde destinate, dopo aver esplorato il sistema solare esterno, a proseguire per sempre nello spazio più sconfinato e lontano. Come inaspettato ed eclettico accessorio le due sonde hanno un pacchianissimo disco d’oro su cui risultano incise le stramberie più varie: si va da una vera e propria playlist Spotify ante litteram con pezzi da novanta come Bach e Beethoven associati a randomiche ballate (Johnny B. Goode), registrazioni di saluti in tutte le lingue, fino a informazioni su paesaggi e animali terrestri, l’immagine del genoma umano e altre accozzaglie di informazioni di questo tipo.
Lo scopo? Idealmente far conoscere l’umanità a una civiltà extraterrestre. Ora, fermiamoci un attimo a immaginare l’irrealistico scenario: l’alieno inserisce questo luccicante disco nel suo grammofono e fa clic su ‘on’. Inizia ad ascoltare suoni incomprensibili e voci anche piuttosto aggressive (Chuck Berry, con tutto il rispetto, non penso gli alieni siano pronti per questa musica, magari i loro figli), una serie di canti Navajo e i rumori di un picchio campestre che trapana un albero.
Non so voi, ma fossi nel povero extraterrestre proverei un misto di confusione, inquietudine e perversa attrazione. Nella migliore delle ipotesi il Grigio che incappa in questa boomerata prende il disco, lo fonde e ci fa un bel pendente Pandora per la sua bella. Nella peggiore delle ipotesi abbiamo appena passato tutte le informazioni più sensibili (sì, anche quella sul picchio campestre) per una possibile colonizzazione aliena. Non temete, le probabilità che questa infantile capsula del tempo finisca in mano o artiglio o tentacolo di qualche marziano sono davvero infinitesimali. E se anche succedesse, i nostri vicini di galassia si guarderebbero bene dallo stabilire un legame con una cultura tanto schizofrenica e psicolabile come quella che emerge dal disco d’oro.
E allora la domanda sorge piuttosto spontanea: come comunicare che ci siamo e chi siamo a una civiltà sconosciuta, il tutto senza apparire ridicoli?
Sul secondo punto temo la risposta debba farsi attendere ma sul primo una mezza idea ce l’ho. Nel disco d’oro due elementi degni di interesse c’erano sicuramente. Il primo era il messaggio dell’allora presidente americano Carter che si concludeva con questa sentita chiosa: “Stiamo cercando di sopravvivere ai nostri tempi per poter vivere fino ai vostri“. Le sonde infatti impiegheranno almeno quarantamila anni prima di giungere presso un’altra stella. Il secondo inserto degno di nota è quello della registrazione di una donna al supermercato. Che c’è di rilevante, direte voi.
C’è l’immagine della quotidianità, un’immagine non posticcia ma assolutamente realistica di un momento di pura routine. Ora, sia chiaro, non mi aspetto di mandare nello spazio le registrazioni delle telecamere di servizio, però qualcosa che sia interprete di quello che siamo e della società in cui viviamo sì. Per secoli, se non millenni, questa volontà di “sopravvivere ai nostri tempi per poter vivere fino ai vostri” è stata affidata all’arte. Dalle mani impresse sulle pareti di una grotta alla passione di Bach c’è sempre stato un filo conduttore invisibile che con la sensibilità che solo l’uomo sa avere ha superato i confini temporali, valicato i limiti dello spazio-tempo ed è arrivato fino a noi, marziani rispetto ai primi ominidi eppure, in qualche modo, capaci di stabilire un contatto con loro.
L’arte attraverso la sensibilità dell’autore ha descritto un’epoca, l’ha inquadrata, cristallizzata per sempre, per molti versi anticipata e carpita nella sua essenza più vivida. Negare che questo compito sia ora più che allora affidato alla cultura popolare non si può. E allora ecco la mia provocazione: “Volete spiegare gli umani ai marziani? Fategli vedere The White Lotus“. Se pensate, infatti, che l’arte sia elitaria vi sbagliate di grosso: non lo era nelle grotte di Lascaux, non lo era nel Giudizio Universale e nelle vetrate gotiche, vere e proprie storie illustrate per i fedeli illetterati. L’arte è sempre stata una grande storia narrata a tutti e per tutti, di eroi a cavallo e di mostruosi mulini a vento, di uomini soli e di emozionanti viaggi e amori.
Un’eredità raccolta dal cinema e negli ultimi decenni dalle serie tv con le loro storie a puntate.
Ma perché proprio The White Lotus? Perché The White Lotus è il più fedele, ruvido ritratto sublimato in arte dell’uomo contemporaneo. Nel patinato scenario di un paradiso tropicale o mediterraneo The White Lotus offre la perfetta riproduzione in scala di un’umanità ipocrita e infantile, idealista e idealizzata, meschina e castrata. È un microcosmo in cui ogni personaggio riveste un ruolo, diventa espressione tipizzata di ognuno di noi.
A partire proprio da quella selezionata, elitaria clientela che così bene si fa espressione della morente società occidentale, disperatamente alla ricerca di emozioni vere e fatalmente condannata a vivere in un mondo posticcio di celluloide. Il paradiso tropicale della prima stagione e la Sicilia chiusa nel recinto di un hotel della seconda non hanno niente di realistico, sono nient’altro che riproposizioni del lusso patinato dei rampanti spazi urbani delle grandi metropoli, realtà in cui la natura viene piegata, imbellettata, falsificata a uso e consumo del cliente.
Quel cliente che è solo un viziato bambino che deve essere accudito, vezzeggiato e riverito perché totalmente incapace di badare a se stesso. Magnifica espressione di questo è in particolare Tanya, trait d’union, non a caso, delle due stagioni. Il suo costante lagnarsi, la totale incapacità di prendere decisioni, l’infantilismo che trasuda da ogni poro diventa un ritratto maestoso dell’uomo occidentale, vittima di se stesso e della propria ignavia, assecondato e foraggiato da una società che lo riverisce e compatisce nel suo consumismo patologico.
Tanya è costantemente piegata su se stessa, schiacciata dal dolore e dall’insonnia, dal turbamento tutto moderno di chi si è svuotato di ogni emozione reale diventando nient’altro che una botulinata baby girl in una life in plastic. Perfino il corpo, allora, diventa finto, plastica senza consistenza che scivola via tra un lamento vittimistico e l’altro. Ed è proprio qui che emerge un altro grande tema di The White Lotus, quello del rapporto con culture diverse.
Tanya sembra ritrovare vigore, concretezza, profondità nella relazione manipolatoria con Belinda, la direttrice del centro massaggi dell’hotel.
Le cure della donna, improntate a pratiche esotiche e psico-spiritualiste colpiscono Tanya, la esaltano e la spingono a voler affidare a tutti i costi un’attività imprenditoriale a Belinda. Quest’ultima si illude, cede alle lusinghe della ricca americana ma viene presto castrata nelle sue speranze dal repentino disinteresse di Tanya, attratta ora da nuovi interessi (amorosi). Come un bambino col giocattolo Tanya molla il vecchio per il nuovo. La perfetta esemplificazione delle forme di neocolonialismo che ancora regolano i rapporti tra Occidente e sud del mondo, fatte di promesse infrante e rapido disinteresse oltre che di una forte e obbligata sudditanza. L’attrazione per l’esotico (il massaggio di Belinda), il rifugio in pratiche orientali, non è che il capriccio di un momento, la religiosità fatta a uso e consumo di un uomo che, una volta soddisfatta la propria ricerca di sollievo nello spirito, è pronto a consumare un altro sentimento (l’amore superficiale per Greg).
E non è diverso il rapporto tra Paula e Kai anch’esso specchio di ipocriti rapporti di sudditanza. Paula, viziata ragazza occidentale, soddisfa l’emozione di un’estate rincorrendo Kai, un nativo semplice e concreto, già una volta sconfitto nei rapporti con la società occidentale, costretto, com’è, a trasformare le proprie danze sacre in spettacolino d’intrattenimento per il pubblico americano. Paula, nell’amore, lo indottrina a quelle ideologie di supposto progressismo americano convincendolo a riprendersi la sua terra con la forza, commettendo un furto. Ma quando la situazione volge al peggio l’attivismo di Paula scompare, lasciando posto al silenzio e al disinteresse mentre butta in mare, come uno scarto, la collanina che Kai le aveva donato in pegno amoroso. Facile ergersi a difensori e moralizzatori, a benigni sodali dei poveri sfruttati, finché questo non ci tocca in prima persona. A quel punto ecco che si voltano le spalle e si passa alla prossima campagna di finto attivismo.
Così ci appaiono posticce, estremizzate e inconcludenti le critiche beffarde che la stessa Paula e l’amica (di facciata) Olivia rivolgono ai genitori di quest’ultima, colpevoli di essere privilegiati ‘boomer‘. The White Lotus mette alla berlina quella cancel culture propria delle nuove generazioni mostrandone il carattere elitario e iperbolico. Lo stesso padre di Olivia (simbolicamente castrato come uomo e genitore nel cancro ai testicoli che pensa di avere) non mancherà di rinfacciare alle ragazze come il loro sia un ostracismo non dissimile da quelle forme di discriminazione che tanto condannano (“Qual è la mia colpa? Essere bianco?“). Dall’altro lato, però, The White Lotus non presta il fianco neanche alle posizioni dei conservatori americani mostrando che se la sinistra gigioneggia sorseggiando cocktail non è meno ipocrita chi, come Tanya, bada solo al proprio piacere.
Della destra americana si fa allora espressione il contraltare maschile di Tanya, Shane, bambinone viziato e morbosamente legato a sua madre, espressione di un uomo fiacco e vuoto, attaccato alla mammella del potere e del denaro.
Per lui conta solo lo status che, quando gli viene tolto (per errore è privato della migliore suite) deve essere capricciosamente rivendicato a tutti i costi. Anche la bellissima moglie Rachel (una superba Alexandra Daddario) non è altro che parte del suo status, trumpiana moglie trofeo di stagliante bellezza. Da parte sua Rachel anche di fronte alla consapevolezza di un matrimonio affrettato e tutt’altro che d’amore non rinuncia a quel rapporto superficiale e insulso proprio per lo status che ne ricava, lei che è solo una mediocre articolista freelance.
In pochi battiti, insomma, The White Lotus ci mette di fronte a rapporti geopolitici riprodotti in scala, a dinamiche sociali di pressante attualità, a figure umane di iperbolico realismo e lo fa con una narrazione vivace e iconica, destinata a rimanere a lungo nell’immaginario collettivo. White Lotus non è semplicemente una bella serie. The White Lotus è un instant cult che non si perde neanche nella seconda stagione quando tornano quelle relazioni di potere con alcune variazioni sul tema (come la rivincita della scafata ‘natia’ Lucia Greco sull’inesperto Albie). E allora, volete spiegare gli umani ai marziani? Fategli vedere The White Lotus.
Realizzate un bel blu-ray d’oro, caricateci sopra la serie, incollatelo a qualche sonda e speditelo in giro per l’universo. Se non altro riusciremo a intrattenere chi ne entrerà in possesso. Anche se forse la speranza (il bisogno?) che abbiamo non è quello di comunicare con gli alieni di un’altra galassia ma con i ‘marziani’ di questo stesso mondo. Quei ‘marziani’ che fra quarantamila anni raccoglieranno dall’orbita terrestre un rifiuto spaziale che ha fatto il giro ed è tornato fino a loro parlandogli in lingue e immagini strane eppure, in un qualche modo, inspiegabilmente così umane.