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L’estremo realismo di The Wire, che ha messo in scena un esperimento educativo realmente avvenuto

The Wire
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The Wire più che una serie è un vero e proprio spaccato sulla società americana, in particolare sui suoi aspetti più oscuri e contraddittori: per ognuna delle sue cinque stagioni è affrontato un tema dominante (la droga, i traffici al porto, l’amministrazione cittadina, il sistema scolastico e i media). L’attenzione per i dettagli, l’occhio documentaristico con cui si affrontano i problemi sociali si alimentano di esperti di ogni ambito. Per la realizzazione di The Wire ci si è serviti infatti della collaborazione attiva di specialisti di tanti settori diversi, da poliziotti a politici, sociologi, giornalisti, fino a ex-criminali.

Il risultato è un racconto dal realismo estremo, privo di fronzoli e magistralmente costruito su una trama che avvince grazie alla geniale sceneggiatura.

Una narrazione dura, cruda, verace, che conquista proprio per questo. The Wire è probabilmente la cosa più reale che si sia mai vista in televisione. La scelta degli attori si somma al resto: indimenticabile su tutti Michael K. Williams nella parte del gangster dal cuore buono Omar Little. Ma è dalla coralità delle interpretazioni che la serie trova forza. Incredibili quelle dei ragazzi che agiscono nella quarta stagione di The Wire: in alcuni casi reamente presi dalla strada, riescono a restituire con vividezza le contraddizioni, le debolezze e le sofferenze di chi è cresciuto in ghetti nei quali non puoi far altro che adattarti per sopravvivere.

In questo senso la quarta stagione, incentrata sul sistema scolastico, è senza dubbio una delle più accurate sotto ogni punto di vista. L’azione si concentra su una scuola pubblica che affronta problemi di dispersione scolastica e di criminalità. L’espediente che serve a introdurre il contesto è presto detto: Prez, risultato inadeguato nel suo ruolo di detective, si reinventa insegnante approdando così nell’istruzione pubblica. Il suo approccio risulta traumatico fin dall’inizio: nella 4×03 sono introdotti gli studenti problematici che compongono le classi e con un’escalation rapidissima assistiamo al primo scontro tra due ragazze che porta al ferimento all’orecchio di una delle due.

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La scuola di Baltimora

Nei ghetti americani degli anni ’70 questa violenza e criminalità giovanile erano all’ordine del giorno e il livello d’istruzione deficitario.

Anzi, la scuola diventava luogo in cui si acuivano i problemi e le disparità (qui le migliori serie tv ambientate nel contesto scolastico). Per tanto tempo i politici e le istituzioni hanno ritenuto questo un problema quasi connaturato alle minoranze ispaniche e afrodiscendenti, una sorta di deficit intellettivo: concetto, com’è facile intuire, totalmente razzista e discriminatorio. È solo grazie agli studi socio-pedagogici che negli anni Sessanta si arriva all’elaborazione della teoria della deprivazione: se si cresce in un ambiente poco stimolante si svilupperanno di meno le proprie abilità intellettive. Per questo in quegli anni iniziano a moltiplicarsi dei programmi che mirano ad annullare la disparità: si tratta dei cosiddetti Head Star programs che proponevano di offrire attività e materiali stimolanti ai bambini dei ghetti in questione.

È quello che in The Wire provano a fare in modi diversi Prez da un lato e Colvin con l’aiuto di uno psicologo dall’altro.

Questi ultimi due in particolare hanno come obiettivo la prevenzione di comportamenti violenti e criminali nei ragazzi. Per questo selezionano una classe “speciale” composta dai ragazzi con maggiori difficoltà comportamentali. Le loro figure sono chiaramente modellate su quelle di due studiosi, Ann Brown e Joe Campione, che operando in una scuola del ghetto di Oakland costruiscono un modello di classe finalizzato a superare la crisi educativa che negli anni Ottanta attanagliava la società americana. Creano così le “comunità di apprendimento“, classi in cui, tramite la collaborazione, possa prodursi apprendimento tra tutti i membri, insegnanti compresi: non più un’idea di trasferimento di conoscenze da insegnante ad alunno ma di produzione di conoscenze, come avverrebbe in una comunità di scienziati che collaborano insieme.

Il maggiore Colvin e lo psicologo, in The Wire, dopo i primi infruttuosi tentativi di regolamentare i ragazzi, provano a cambiare metodo. Come Ann Brown e Joe Campione, iniziano a far ragionare i ragazzi ponendoli nel loro contesto di appartenenza, quello malavitoso e violento, in cui lo spaccio è quotidianità. Capiscono così che la conoscenza si produce soltanto attraverso zone di sviluppo prossimale: la nuova informazione attecchisce soltanto se si lega a una conoscenza già esistente. Non solo, queste zone possono essere “multiple”, cioè ognuno può imparare dagli altri e insegnare agli altri.

Così, per esempo, Colvin stesso impara dai ragazzi, molto più pratici di quel mondo di strada.

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I tavoli disposti in circolo danno l’idea di una comunità in cui tutti collaborano tra di loro

Questo apprendimento basato su interazione, collaborazione e dialogo permette di accrescere l’autostima dei ragazzi, fino a quel momento considerati sempre semplicemente incapaci (e quindi convinti di esserlo). La condivisione delle conoscenze, la riflessione in gruppo, l’approccio collaborativo creano invece un apprendimento attivo in cui tutti fanno la loro parte in base alle proprie potenzialità e in cui si sentono responsabilizzati nel farlo. La diversità diventa quindi una forza perché amplia le conoscenze che circolano e aumenta le zone di sviluppo prossimale.

Nella comunità di apprendimento di Ann Brown e Joe Campione fondamentali sono poi anche l’uso di strumenti informatici e della “negoziazione” degli obiettivi.

In The Wire proprio Prez ottiene i risultati migliori quando introduce lo studio della matematica attraverso il calcolo delle probabilità con le carte: si guadagna così l’attenzione dei ragazzi e nella 4×06, trovato un computer nel deposito della scuola, decide di portarlo in aula stimolando così un fortissimo interesse in Dukie. Colvin poi, insieme agli assistenti sociali, divide la classe in gruppi (rifacendosi così al concetto di apprendimento cooperativo) promettendo una cena in un ristorante di lusso alla squadra che avesse completato per prima alcuni modellini senza servirsi delle istruzioni. Tanto lui quanto Prez trasformano così l’apprendimento in un gioco che porta a riconoscimenti.

Per un ragazzo che per sua stessa natura è “programmato” per apprendere tramite l’esperienza, il gioco e l’esperimento, le classi ideate da Prez e da Colvin sul modello di quelle reali di Ann Brown e Joe Campione, diventano così luoghi positivi, di incontro e collaborazione con i compagni, di accrescimento delle proprie conoscenze e di miglioramento della stima di sé. La conoscenza non procede in maniera unidirezionale (da insegnante ad alunno) ma si irradia in tante direzioni, in base agli stimoli e intuizioni portate da ogni partecipante.

Colvin naturalmente stimola alcune risposte, alimentandole con domande interessate, ma spesso è lui stesso nella condizione di non sapere la risposta e affidarsi ai ragazzi.

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Prez in classe

Ognuno così trova il proprio ruolo e spazio in cui mettere in gioco le proprie capacità e migliorarle. E le attività sono sempre, secondo le indicazioni di Brown e Campione, collegate al contesto culturale e alla vita personale degli studenti affrontando problemi reali di conoscenza: di qui il senso delle discussioni sullo spaccio per strada e sul gioco delle carte. In quest’ultimo caso, in particolare, la varietà degli apporti da parte degli studenti è ben esemplificata da Dukie che inizia a sentirsi importante “specializzandosi” nell’uso del computer, sfruttato per ottenere dati utili, ad esempio, al calcolo delle probabilità.

Nella 4×09 di The Wire però scopriamo che il progetto scolastico di Colvin viene sospeso

Si introduce così l’altro annoso problema scolastico, quello del deficit economico a cui proverà a porre rimedio Carcetti nella 4×10. Ma alla base del “fallimento” del programma c’è anche altro, la stessa motivazione che ha portato nella realtà a non comprendere da subito il potenziale dei programmi delle comunità di apprendimento. Le forti reticenze a questo tipo di istruzione trovarono forza nell’idea che i costi fossero eccessivi rispetto ai vantaggi e i finanziamenti diminuirono. Il programma fu spesso accantonato ma in alcuni casi continuò, senza crescere, grazie a studiosi fermamente convinti della sua efficacia. Soltanto a distanza di venticinque anni si colsero i risultati: i bambini che avevano usufruito del programma avevano maggiori possibilità di continuare gli studi, di ottenere e mantenere più a lungo un lavoro e non finire in prigione. Un successo incredibile.

Eppure, questa didattica non poteva bastare, e anche qui The Wire interpreta con magistrale consapevolezza il problema. A fine stagione Prez scopre che Dukie non ce l’ha fatta, ha abbandonato la scuola e ha iniziato a spacciare. Come mai? Per studiosi come Jensen il caso di questi fallimenti fu l’occasione per riaffermare teorie razziste: i bambini neri non avrebbero avuto la necessaria dotazione genetica. Una follia. La verità era, ovviamente, molto diversa. Questi programmi non tenevano conto (come avrebbero potuto?) del problema fondamentale della discriminazione: il modello di rifermento era quello della classe media americana che esercitava una vera egemonia sulla cultura ispanica e afrodiscendente. Non rientrare in quel modello per la società del tempo voleva dire non essere all’altezza.

Si tornava così a una vera e propria deprivazione culturale che poneva su un livello di inferiorità culture diverse da quella media americana.

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Namond, adottato da Colman, ottiene importanti successi scolastici

Non solo. Altro limite inevitabile era dato dal contesto stesso, quello del ghetto, che tanto nella Oakland di Brown e Campione quanto nella Baltimora di Prez e Colvin, è ambiente che limita e annulla le possibilità di successo risucchiando nel mondo della criminalità e della droga. Non è un caso che l’unico ragazzo che davvero riesce ad affermarsi in base alle sue potenzialità è Namond. Colvin nella 4×10, ottenuto un incontro in carcere con il padre riesce a convincerlo ad affidargli Namond così da garantire al giovane un futuro migliore. Il risultato è quello sperato e la stagione di The Wire si chiude proprio con le immagini dei successi scolastici di Namond, adottato da Colvin e dalla moglie.

Soltanto quando viene tratto via da quel contesto degradato e chiuso del ghetto, inserito in una tipica famiglia della classe media americana, Namond si realizza.

È questo il duro e crudo messaggio che ci lascia la quarta stagione di The Wire, che ancora una volta non offre soluzioni facili ma ci mette di fronte agli infiniti paradossi e ipocrisie di una società malata nella quale solo alcuni fortunati possono sperare di trovare il lieto fine mentre per gli altri c’è naufragio delle buone intenzioni e il collasso di ogni speranza a causa dell’assenza colpevole di istituzioni ipocrite e razziste che isolano invece di integrare e agiscono con violenza invece che con comprensione. E The Wire ci aveva avvisato già diciotto anni fa.