Ci sono poche serie tv così vere, nude, sporche e che lasciano quel retrogusto di amara insoddisfazione come The Wire. Talmente reale che veniamo portati proprio sulle strade della pericolosa Baltimora, con lo smog che invade i nostri polmoni e il fumo che esce dai tombini, mentre un brano hip hop si irraggia da un SUV di prima classe e i nostri piedi finiscono involontariamente su una siringa di eroina. Sebbene il focus sia la lotta tra la polizia e i trafficanti di droga, lo spettacolo apre uno squarcio sulla vita di una metropoli statunitense, sulle sue istituzioni, sulla burocrazia, sulla scuola e sui media; contesti diversi di cui ci vengono presentati gli aspetti più controversi e che sono principalmente dominati da una cosa: il compromesso. Quello che vuole schiacciare, prevaricare, vincere su tutto e tutti. E i personaggi vengono automaticamente risucchiati da questo vortice di disillusa realtà, mostrandoci come non esistano eroi e villain, ma solo persone in bilico tra bene e male, con i loro problemi e obiettivi.
Eppure, nonostante Baltimora sia un purgatorio in terra (ha, infatti, il secondo tasso di criminalità più alto della nazione) e sebbene i suoi abitanti in The Wire tendano più verso l’oscurità che la luce, c’è qualcuno che lotta per migliorare la situazione. Tra questi troviamo l’iconico Omar, ma pure il solo e unico Lester Freamon.
Quando ci viene presentato per la prima volta in The Wire, noi e gli altri personaggi non capiamo perché Daniels l’abbia scelto come membro della sua squadra. Insomma, è un vecchio agente che lavora agli oggetti smarriti e si diverte a intagliare piccoli mobili di legno per le case delle bambole. Che utilità potrebbe mai avere un uomo di questo tipo in un’operazione d’intercettazione così importante e spinosa? Tuttavia, nel momento in cui rompe il silenzio durato qualche episodio e proferisce parola, l’arcano viene svelato e realizziamo non solo che Lester è molto di più di quanto il suo aspetto – o il suo grado – suggerisca, ma anche di trovarci di fronte a uno dei personaggi migliori della serie tv.
Lo Sherlock Holmes di The Wire.
Brillante, astuto, attento ai dettegli e scrupoloso, è grazie alle sue intuizioni se il team fa notevoli progressi nei casi a loro assegnati, soprattutto in quello di Barksdale: ad esempio, individua i codici con cui gli spacciatori si scambiano messaggi attraverso telefoni e cercapersone, portando a scoperte fondamentali come il nascondiglio principale in cui tengono la droga. La sua mente non si riposa mai, è in continuo movimento anche quando sta pazientemente costruendo i suoi modellini di legno, concentrata su quel particolare o quella parola che ai suoi colleghi sono sfuggiti (come la vecchia foto di Avon, dal quale poi parte l’intera indagine), su quella persona che viene considerata insignificante ma che in realtà è fondamentale (come la ballerina di strip nel locale di Barksdale, che diviene una preziosa informatrice) o quel luogo non battuto dalla polizia. Del resto, il suo motto è: “And all the pieces matters”, ovvero tutti i pezzi contano.
Se poi Lester dice che quel caso non deve essere chiuso in The Wire, non è ossessione: semplicemente sta arrivando alla soluzione, ma non gli viene dato il giusto tempo per raggiungerla. Perché lui è consapevole di essere maggiormente intelligente dei suoi colleghi e tanto quanto i narcotrafficanti che deve catturare. Se non di più. Sa che questi ultimi godono nell’essere un passo avanti alle forze dell’ordine. Per questo motivo, dunque, deve impegnarsi più del dovuto, pensare in modo creativo, persistere oltre il buon senso e l’autoconservazione se vuole fare la differenza.
Però, in nessuna circostanza esagera. Anche se il suo intelletto glielo permetterebbe.
Pur riuscendo a piegare le regole a suo favore, a sfruttare il disprezzo di McNulty per l’autorità e la classe impeccabile di Daniels a suo vantaggio (e dunque per quello dei casi che segue), non va mai oltre l’asticella. A differenza proprio di McNulty, che si spinge sempre troppo oltre in The Wire, rischiando di far saltare le operazioni più e più volte. E Lester non ha paura di sfidare lui, Daniels, i suoi superiori o altri se c’è bisogno di rimetterli in riga, se stanno attraversando un confine da cui non si torna indietro o sa di aver ragione.
Non l’ha mai avuta in The Wire.
Lester sarebbe potuto diventare un pezzo grosso nel distretto di Baltimora se non avesse pestato i piedi alla gente sbagliata, venendo condannato al lavoro d’ufficio per 13 anni e 4 mesi. Ma la sua incorruttibile moralità non l’avrebbe autorizzato a compiere un gesto che andasse contro la giustizia e i suoi principi, a corrompersi con qualcosa di così sbagliato come insabbiare un reato, girarsi dall’altra parte soltanto perché a essere incriminato è il figlio del potente editore del principale giornale della città. Nemmeno se in palio c’è la sua carriera. E non è l’unica occasione, perché Lester cerca sempre di fare la cosa giusta; ogni volta che fallisce, infatti, possiamo vedere nei suoi occhi quanto dolore gli provochi la sconfitta. Rendendolo il personaggio più umano e riconoscibile in The Wire.
Di conseguenza, per certi versi, è l’ufficiale di polizia ideale: incorruttibile, curioso, perspicace, abile e ligio alle regole. Che non si arrende né per una punizione, né per una minaccia, né tantomeno se viene costretto al ritiro.
Questo è uno dei motivi per cui si cui si adatta perfettamente a quel magazzino in cui finalmente riesce a ritrovare sé stesso: è l’emarginato per eccellenza. Ma non solo.
Lester è soprattutto un personaggio capace di unire un gruppo eterogeneo, la colla necessaria affinché la squadra di Daniels non si sfaldi. Insomma, qualcuno deve tenere a bada quella testa calda di McNulty, insegnare alla talentosa ma grezza Kima, correggere gli errori dell’inesperto Prez (almeno all’inizio), frenare chi vorrebbe prendere la strada più facile come Herc e Carver. È il nonno saggio e premuroso ma che è in grado di prendere in mano la situazione quando serve, che mette a disposizione di tutti la sua esperienza, dispensando massime come quella che dice a McNulty sulla vita e il lavoro:
“La vita. La vita, Jimmy, sai cos’è? È la m****a che succede mentre aspetti momenti che non arrivano mai. […] E il lavoro non ti salverà”.”
Una saggezza che tocca punti celestiali in The Wire, regalandoci perle assolute (come il discorso sulla corruzione del sistema nella quinta stagione), di cui memorabile è soprattutto la lezione sul seguire i soldi. Perché se loro si concentrano sulla droga, troveranno soltanto la punta dell’iceberg, ovvero spacciatori e tossicodipendenti. Però, se guardano al denaro, hanno più chance di essere condotti nella tana del boss che da tempo vogliono catturare, arrivando dunque sulla cima di quella montagna di cui non sembra mai esserci la fine. Allo stesso modo di quei 13 anni e 4 mesi costantemente menzionati da Lester, per ribadire da quanto tempo è stato costretto all’inattività per aver fatto la cosa giusta.
E non lo ribatte solo per creare delle gag divertenti con McNulty. È ciò che, con orgoglio e pazienza, lo fa andare avanti in attesa del momento della propria rivalsa. Quella che riesce a ottenere con la promozione a detective della Omicidi, dopo aver affrontato tante coltellate, l’ostruzionismo del distretto, lo scetticismo di chi lo credeva un fallito e l’indifferenza dei colleghi, dando un briciolo di speranza in una Baltimora oscura, cupa ma che non deve essere giudicata dalla copertina. Esattamente come Lester Freamon, il cervello delle operazioni; colui che incarna più di tutti il messaggio complesso, emblematico, umoristico e sociale di questo capolavoro chiamato The Wire.