Diretto da Jon Holberg e prodotto da Netflix, Trouble (titolo originale, in svedese, Strul) è sbarcato sulla nota piattaforma lo scorso 3 ottobre. Remake dell’originale Gli artisti della truffa (1988) di Jonas Frick, Trouble rientra nella sequela di ripescaggi dal passato che Netflix sta ormai adottando da un po’ di tempo per sopperire alla sempre crescente necessità di nuovi prodotti. La pellicola di Frick, infatti, è riuscita a raggiungere lo status di cult, tanto che, anche se non l’avete mai visto, sicuramente vi sarà capitato di sentirne nominare il titolo.
Un remake di un film così noto, per Netflix, equivarrebbe a giocare facile? Giocare sul sicuro? Sulla carta si, mentre nella pratica non è sempre così. Di remake che hanno superato gli originali ne abbiamo a bizzeffe, sia tra le serie, che tra i film. Migliorare la ricetta, quindi, è possibile. Ne abbiamo le prove. Tuttavia, per poterlo fare, il remake deve almeno mantenere, se non addirittura implementare, le caratteristiche base dell’originale, andando ad aggiungere, poi, il proprio tocco al relativo immaginario. In parole povere, se è un thriller, la suspence si deve percepire sempre di più.
Se è horror, la messinscena scabrosa e il clima di tensione devono crescere. Se è una commedia, il minimo che le si chiede è di far ridere. Ecco qui, appunto, il problema principale di Trouble. Teoricamente, il film si classifica come una commedia, ma tutto fa, fuorché ridere.
Trouble e il tropo de “nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Si, ma anche questa action-comedy è tutta sbagliata.
Partiamo dalla trama. Conny (Flip Berg), goffo venditore in un negozio di una grande catena di elettronica, è un uomo divorziato, la cui vita è intervallata dalle visite della figlia, Julia, ogni due settimane. Un esistenza semplice, con i suoi alti e bassi, ma normale. All’improvviso, però, qualcosa sconvolge questa normalità : Conny si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Mentre sta installando un nuovo televisore, il padrone di casa viene ucciso all’insaputa del protagonista. Il motivo? Essere nel posto sbagliato al momento sbagliato e aver visto troppo. Trovato svenuto sulla scena del crimine, Conny viene ingiustamente accusato di omicidio e incarcerato.
La pena è di 18 anni. In prigione, incontra due criminali che lo scambiano per un pilota, professione invece del nuovo fidanzato dell’ex moglie. Diventato parte del piano di fuga dei due, Conny lavora contemporaneamente per provare la propria innocenza e trovare il vero assassino.
La storia sembrerebbe, infatti, avvincente. A differenza dell’originale, Conny non è più un insegnante di chimica e non viene accusato per possesso di droga. A parte qualche modifica, Trouble mantiene in generale la struttura narrativa dell’originale di Frick.
Di solito i prodotti scandinavi riescono sempre a portare a casa un buon risultato (ecco le nostre serie scandinave preferite). Ma le problematicità di questo film non stanno nella sua storia, ma nella narrazione e nella comicità . Vediamole più nello specifico.
Conny sarà pure goffo, ma in Trouble tutti i personaggi sono degli inetti
Come la maggior parte delle commedie, il nostro protagonista è di fatto goffo, maldestro, imbranato. Ma, con lui, sembrano esserlo anche tutti gli altri. Conny ha solo la colpa di trovarsi, ogni singola volta, nel posto sbagliato al momento sbagliato. La sua inettitudine, paradossalmente, è nulla in confronto a quella degli altri personaggi. Nella sua stoltezza, Conny prende scelte anche brillanti, usando le proprie capacità e conoscenze di tecnico per risolvere il caso. In tutto ciò, mi viene da commentare solo con:
Conny nella valle degli idioti
Non importa il grado o la posizione, tra i personaggi di Trouble forse se ne salva uno.
All’interno del corpo di polizia, dal capitano Helena, in preda a una crisi isterica da metà film in poi, alla detective Diana, che, inconsapevole di quello che stia facendo metà delle volte, cerca di aiutare Conny. I tentativi della prima a mettere una toppa alle azioni di Conny, che butterebbero all’aria tutto il suo piano, sono futili, sbrigativi a tratti.
E, nel momento in cui vuole e può attuare la soluzione definitiva a tutti i suoi problemi, Helena è accecata da rabbia e frustrazione tali da farle perdere il controllo. Solo l’intervento di una sbadata e impacciata Diana, porterà la verità a galla e scagionerà Conny. Sebbene, ancora adesso, mi sto chiedendo chi mai, in sala sceneggiatura, si sia convinto che questa coppia scemo-più-scemo potesse funzionare.
All’interno del carcere, dalle guardie, che non si accorgono di un tunnel per la fuga dal diametro di almeno un metro e di qualche detenuto che prima sparisce e poi riappare, fino ai due criminali, che entrano in combutta con un ingenuo Conny. Se da Musse non ci aspettiamo intelligenza e arguzia, visto che, palesemente, è il “braccio operativo” della coppia. Da Noridern, la mente dietro all’operazione di fuga, ci aspettiamo ragionamenti più fini ed eleganti. Invece, decisioni azzardate e frettolose la fanno da padrone, tanto che finisce per fidarsi della parola di un perfetto sconosciuto.
L’elenco di inettitudine non finisce mica qui
Anche se si potrebbe continuare, direi di terminare con l’avvocato della difesa, Hasse. Se, come me, siete riusciti a terminare l’interminabile ora e quaranta di Trouble, sarete d’accordo che un personaggio come Hasse non sarebbe in grado di prendere parte a un affare così delicato con dei malavitosi e chiunque fosse coinvolto non si fiderebbe ad affidargli nessunissima trattativa.
L’unica che sembra farcela a vivere è la piccola Julia, il cui unico desiderio è ricevere un cavallo per il compleanno. Certo, è un desiderio esagerato, ma, a differenza degli adulti del film, lei ha otto anni.
La sagra delle gag fini a sé stesse e dell’umorismo arido, ma, hey, è in stile nordic noir!
Ammetto che i primi minuti del film mi hanno anche sorpresa. La regia e il montaggio dinamici mi hanno catturata immediatamente. Insieme ai colori freddi della fotografia, mi hanno subito rimandato all’immaginario della serialità in stile nordic noir. La presentazione del misterioso assassino, inserita all’interno dell’operazione di polizia, ha infittito la trama all’istante. Ero sinceramente curiosa di sapere come sarebbe andata finire. Anche la risoluzione finale, in un atto di rivendicazione dell’umile tecnico della tv, narrativamente parlando, l’ho trovata originale. Tuttavia è l’ora e mezza che ci sta nel mezzo ad avermi annoiata all’inverosimile.
Battute scialbe, gag inutili e poco reali, fini a sé stesse, hanno letteralmente riempito il tempo. Mi è sembrato quasi che dovessero arrivare al minutaggio minimo richiesto per poterlo classificare come film e non cortometraggio. Sporadici momenti di comicità sono riusciti (come quando Diana tenta di rubare la chiave all’addetto dell’hotel, ma questa è legata alla sua vita), ma tanti altri mi hanno solo portata a dire: “Perché?”. Perché rasarsi le sopracciglia per non sembrare più il ricercato? Perché trasportare un intero televisore e non solo l’hardware? E, soprattutto, perché non cambiare avvocato?
In conclusione, Trouble è una commedia che non fa ridere. A questo punto, non so neanche se l’obiettivo fosse quello, oppure raggiungere la quota di produzioni mensili da far uscire in piattaforma. Il film ci prova tantissimo nella sua missione. E non credo sia questione della particolarità della comicità nordica, ma semplicemente si tratta di una comicità talmente banale da fare il giro e diventare noiosa.