Dalle colline lontane, si percepisce il calore della cenere. Le donne urlano, gli uomini combattono. Le stelle in cielo non si vedono da quanto è alto il fumo. Troia, la città dalle mura invalicabili, cade. Insieme a lei si chiude un capitolo durato dieci anni e se ne apre un altro, altri mille: così funziona la storia. Nel film Troy un lungimirante Odisseo afferma “si canterà di questa guerra per secoli a venire“, e aveva ragione: non solo la guerra di Troia è giunta fino a noi (attraverso fonti più o meno attendibili) ma i racconti che la vedono protagonista sono scolpiti in modo indelebile nell’immaginario collettivo. Lo stratagemma del cavallo di legno, il duello tra Ettore e Achille, il rapimento di Elena da parte di Paride. Chi non li conosce? E soprattutto, chi non si riconosce in qualcosa o qualcuno? Perché è questo che fa la mitologia greca e latina: attraverso metafore e storie che si intrecciano in una stramba danza, ci tocca dentro. Ci colpisce perché così vicina, pur essendo lontanissima. I tentativi di portare in scena i racconti mitologici narrati per secoli sono stati molteplici (e noi italiani per primi nel corso del ‘900 ci siamo dati da fare): questa volta prendiamo soprattutto in esame il colossal del 2004 Troy e la miniserie del 2018 Troy: Fall of a City. Per provare a capire come mai, ancora oggi, la rappresentazione delle opere omeriche è così difficile.
Bisogna fare una doverosa premessa: se è vero che abbiamo fonti storiche attendibili a dimostrarci che una guerra avente come protagonista la città di Troia si è effettivamente svolta, dall’altra parte abbiamo il mito. La mitologia come materiale principale su cui costruire la narrazione rende già di per sé il lavoro ostico: ci sono cinque, dieci, cento versioni di uno stesso mito, fonti tra le più variegate, versioni modificate nel corso dei secoli. Per questo non ha granché senso giudicare un lavoro basandosi sull’attinenza al mito: quale attinenza? Di quale racconto, interpretazione stiamo parlando? Questo fino a quando non si operano dei veri e propri strafalcioni andando a modificare non solo il prodotto che verrà poi visto al cinema, ma il messaggio fondamentale che dovrebbe comunicare. E il film Troy, diretto da Wolfgang Petersen, ce l’ha messa tutta per sminuire una delle storie più poetiche e spettacolari a memoria d’uomo. Non sto parlando del casting fuorviante, della scelta di inserire episodi mai narrati all’interno dell’Iliade, né tantomeno della modifica di avvenimenti fondamentali ai fini della storia (ancora soffro per l’inutile morte di Menelao sul campo di battaglia). Mi riferisco a quella spettacolarizzazione tanto ricercata che ha finito per far perdere il senso unico e poetico del racconto.
Poi è arrivata Troy: Fall of a City nel 2018 e, ammettiamolo, ci speravamo un po’ tutti. Dai che questa volta è quella buona, ho pensato: fatemi vedere qualcosa che ancora non so. E attenzione: la serie in parte ha colpito nel segno. Non sono qua a distruggerla, perché ha i suoi lati positivi: una maggiore fedeltà all’Iliade (anche se questo benedetto cavallo nell’opera di Omero non si vede nemmeno da lontano), una scenografia e dei costumi appropriati. Un cast etnicamente variegato e adatto ai giorni nostri (con il piccolissimo dettaglio di risultare storicamente inaccurato). Eppure, ancora una volta, qualcosa non torna: i dialoghi sono spenti, più simili a quelli di una soap opera. I personaggi sono meglio caratterizzati ma finiscono anche loro per apparire delle macchiette. Si possono contare svariati errori mitologici (passabili, come detto prima) e storici (ingiustificabili). Per questo mi chiedo: perché tutte queste difficoltà nel raccontare le opere omeriche?
Mi sembra inutile dare la colpa alla mancanza di fondi, dato che il cinema e il mondo seriale ci hanno dimostrato più volte che con quattro spicci si possono produrre dei veri e propri capolavori. Stessa cosa per quanto riguarda la voglia da parte degli autori o l’assenza di materiale: da una parte i tentativi non si sono sprecati, dall’altra la mitologia greca è un enorme calderone da cui è possibile pescare storie interessanti a non finire. Il problema, per come la vedo io, sembra essere la prospettiva: non si tratta di che cosa raccontare, quanto di come farlo. I personaggi cantati dagli aedi sono sfaccettati, terribili, variegati, umani. Anche gli dei (soprattutto). E’ molto facile banalizzare e semplificare quando si raccontano i miti, ma non c’è bisogno: se osservati dalla giusta angolazione, ci si rende conto di quanto siano universali. Complessi, certo, ma avvicinabili a chiunque.
Tornando a parlare di prospettiva, è innegabile osservare come (almeno per quanto riguarda l’episodio della guerra di Troia) il cinema e le serie si siano concentrati sul conflitto in sé, piuttosto che sulle inevitabili conseguenze. Sarebbe interessante poter avere finalmente uno scorcio sul dopo: la caduta della città, il destino della popolazione, la fuga di Enea e il suo tentativo di fondare una nuova città, le tragiche morti di alcuni tra i più famosi personaggi: l’anziano re Priamo che muore ucciso da Neottolemo, figlio di Achille, ad esempio. Un vecchio ormai alla fine della propria vita che indossa l’armatura e va incontro alla morte per difendere la propria città. O ancora, le varie empietà compiute dai greci. Lo stupro di Cassandra, figlia di Priamo, da parte di Aiace; il figlio neonato del defunto Ettore, Astianatte, scaraventato giù dalle mura di Troia come un fagotto. Perché sì, è qui che voglio arrivare: è tanto facile parlare degli eroi quando si guarda solo un lato della medaglia. Mentre la mitologia greca è tutto, tranne che monocromatica: è un trionfo di sfaccettature, un insieme di colori mischiati l’uno sull’altro. Oltre ad essere pervasiva all’interno della nostra cultura, anche dove non sembrerebbe, è una fonte inesauribile di lezioni di vita, insegnamenti e, ogni tanto, semplici e belle favole.
Inoltre la guerra di Troia, l’Odissea, l’Eneide, così come l’immensa vastità di miti che si sviluppano, è anche (e spesso soprattutto) un racconto di donne. Donne spesso dimenticate o messe da parte non solo nella serialità attuale ma nella storiografia e nei racconti fino a noi. Donne rese schiave, principesse e regine, donne sfruttate tutta la vita, ma anche donne protagoniste, donne senza le quali il mito non sarebbe giunto fino a noi nello stesso modo (dove pensate che Teseo abbia preso il filo per ritrovare la strada all’interno del labirinto? Si parla tanto dell’eroe che sconfisse il Minotauro e meno della donna che effettivamente riuscì nell’impresa). Ecuba, Andromaca, Penelope, Cassandra, Elena, Clitennestra, Calipso, Circe, e mille altre. Vorrei sentirle, le loro voci. Vorremmo vederli sulla scena, i loro racconti. Perché, come dice Natalie Haynes nel suo libro Il canto di Calliope, “quando finisce una guerra gli uomini perdono la vita. Le donne perdono tutto il resto”. Ed è spaventosamente vero.
Il mio a questo punto è un invito. Il materiale c’è, la voglia (se la si cerca) pure. Basta ricalibrare un attimo il binocolo per vedere l’obiettivo con maggiore chiarezza. Dateci qualcosa che ci faccia scuotere le ossa come facevano i canti secoli fa. Fateci vedere la passione, l’amore, la sofferenza, il sacrificio, il coraggio. Fate quello che Troy: Fall of a City e Troy non sono riusciti a fare. Fateci vedere il mito.