True Detective, divisa in due stagioni da 8 puntate ciascuna, è una serie Tv raffinata.
Per quanto, quasi all’unanimità, la prima stagione di True Detective sia considerata un prodotto superiore, la seconda rimane comunque su standard elevati che altre serie tv difficilmente raggiungono. Sono molti i segreti di un tale successo, ma soprattutto l’introspezione e la riflessione su quelli che chiamiamo “temi esistenziali“.
La prima cosa che va sottolineata, e che riguarda entrambe le stagioni, è l’intenzione da parte del regista e degli sceneggiatori di soffermarsi maggiormente sui dissidi e sull’analisi psicologica dei personaggi invece che sulla trama: infatti sarebbe fuorviante parlare di True Detective come di una “crime story”, in cui i poliziotti sono degli eroi o degli esempi di moralità; anzi la trama risulta essere un pretesto per entrare nella testa dei personaggi. Se però nella prima stagione questo sistema funziona egregiamente perchè non si perde mai di vista ciò che effettivamente sta succedendo (la ricerca di uno o più serial killer), nella seconda stagione sembra ci sia una esagerazione che da pregio diventa quasi un difetto, facendo passare la trama troppo in secondo piano a favore di intense riflessioni su protagonisti, tra l’altro, troppo numerosi (ben quattro).
La storia nasce e si alimenta attraverso e grazie al rapporto fra il detective Rust Chole e il detective Marty Hart (rispettivamente gli strepitosi Matthew McConaughey e Woody Harrelson) sia nel 1995 che nel 2012, e non viceversa: in pratica, è la loro relazione professionale a creare la trama, non il contrario. Se è vero che la storia ha bisogno di entrambi, è altrettanto vero che la riflessione sui temi esistenziali è affidata completamente al personaggio di Rust; egli, che ha visto la propria vita personale sgretolarsi nel momento in cui è morta la figlia e che ha passato anni devastanti professionalmente come infiltrato alla narcotici, può essere senza dubbio definito un nichilista: anzi, usando le sue stesse parole, un “pessimista cosmico“, che crede fermamente che
“La natura ha creato un aspetto della natura separato da se stessa. Noi siamo creature che non dovrebbero esistere, secondo le leggi della natura. Siamo solo delle cose che si sforzano sotto l’illusione di avere una coscienza […]. Penso che l’unica cosa onorevole da fare per le specie come la nostra sia rifiutare come siamo fatti. E smettere di riprodurci, procedendo tutti insieme verso l’estinzione“.
Nel momento in cui Marty gli chiede che senso abbia allora svegliarsi la mattina, egli risponde: “Mi convinco di essere un testimone, ma la vera risposta è che sono fatto così. Inoltre, non ho la tempra necessaria per suicidarmi“. Quindi non solo crede che non ci siano speranze per la specie umana per come si è evoluta nel tempo (da qui il nichilismo), ma ritiene inoltre di essere parte passiva nella vita e nel suo ciclo, uno che si limita ad osservare, a testimoniare appunto. Non a caso spesso egli fa riferimenti al “sognare” o al fatto che ormai da tempo non può più chiudere gli occhi per dormire perché troppo impegnato a sognare. Questa esperienza onirica di cui egli prova ad essere testimone non va assolutamente confusa con qualcosa di irrazionale o superficialmente superstizioso: dopo aver assistito con Marty ad una seduta religiosa condotta da un pastore nei sconfinati campi delle pianure della Louisiana, Rust esprime tutto il suo disprezzo e la sua diffidenza nei confronti di quel modo di interpretare la religiosità: “E questa qui sarebbe vita? Persone che si radunano e si raccontano panzane che sono in aperto contrasto con tutte le leggi dell’universo solo per finire una cazzo di giornata in santa pace? No. Sarebbe questa la realtà in cui vivete voi, Marty?“. Sia nel 1995 che nei 17 anni successivi egli vive e combatte nell’oscurità da cui è convinto di essere circondato, fino a quando, nell’ultima puntata, capisce di essere stato molto vicino alla morte: ritornano qui alla mente le sue parole sull’osservare le foto di cadaveri, il cui elemento comune era quello di intravedere negli occhi di tutti un sollievo giunto immediatamente prima della morte (non si sa ovviamente se quando Rust parla di sollievo allude ad un accoglimento divino e quindi a Dio, ma True Detective è costruita per lasciare senza risposte alcune domande). Ma la sua reazione, parlando con Marty nei minuti finali della stagione, è singolare e inaspettata:
“Una volta non c’era che oscurità. Per come la vedo io, adesso è la luce che sta vincendo“;
e dice queste parole senza lo sforzo e la diffidenza con cui si era in passato abbandonato alle sue riflessioni, ma le dice di sua spontanea volontà. Questo potrebbe (il condizionale è d’obbligo) aprire uno spiraglio per l’interpretazione del finale in chiave positiva e ottimista: si potrebbe infatti pensare che Rust inizierà a vivere il passaggio da essere testimone a parte attiva dell’esperienza vitale.
SECONDA STAGIONE – La seconda stagione di True Detective, come detto, cerca di unire (con meno successo della prima) la trama alla psicologia dei personaggi, che in questo caso sono 4: Ray Velcoro (un detective corrotto, con il problema dell’alcolismo, che cercherà col passare delle puntate di riscattare la sua esistenza facendo “la cosa giusta”, interpretato da Colin Farrell), Ani Bezzerides (una detective con dissidi familiari che ha difficoltà a relazionarsi con gli altri, interpretata dalla bellissima Rachel McAdams), Paul Woodrugh (un agente di polizia che combatte la sua omosessualità, con tutto quello che questo comporta psicologicamente e non, interpretato da Taylor Kitsch) e infine Frank Semyon (un ex gangster che è costretto a difendere il proprio impero a causa di attacchi politici e della malavita, interpretato da Vince Vaughn). Come si può notare, la struttura a 8 puntate di True Detective è stata duramente messa alla prova da una tale quantità di dinamiche che ogni personaggio porta con sé (volendo infatti la sceneggiatura dare a tutti la stessa importanza); ad ogni modo, gli spunti non mancano e non sono affatto banali.
“We get the world we deserve” (abbiamo il mondo che ci meritiamo) è la tagline della stagione, oltre che, senza dubbio, il suo punto di partenza: di fronte a tanta corruzione, tristezza, ingiustizia, perversione e crudeltà, sembra quasi tombale una tale affermazione, eppure corrisponde in maniera così veritiera a ciò che accade che sembra quasi inevitabile arrendersi alla realtà. Infatti, verrebbe da pensare, che se è vero che hanno ciò che si meritano, i personaggi della stagione vivono in un mondo meschino e terribile, in cui il concetto di “vita” è sovrastato da quello di “sopravvivenza“: tutti, consci ormai che è impossibile vivere, si limitano a sopravvivere (e non a testimoniare come Rust: infatti, Velcoro, Bezzerides, Woodrugh e Semyon sono assuefatti a questa realtà, non la combattono) ed è proprio per questo (forse) che hanno il mondo che si meritano. Non esiste, come nella prima stagione, un ideale di giustizia che deve essere anche solo privatamente perseguito: qui la giustizia coincide con la vendetta, che risulta essere l’unico mezzo attraverso cui i personaggi (soprattutto Velcoro e Semyon) si esprimono e riescono ad andare avanti. Di fronte a questo scenario si giunge inevitabilmente ad un finale di matrice pessimista e negativa, con gli autori della cospirazione politica vincitori: in realtà però si scorge una speranza, rappresentata dalla redenzione di Velcoro e dal suo conseguente sacrificio (alla fine si, per far valere la giustizia in quanto tale e non solo come vendetta, dopo aver scoperto il grande complotto), oltre che dalla sopravvivenza di Bezzerides (e del suo bambino, simbolo di nuova vita), rimasta come ultimo e unico baluardo in grado di tutelare quella giustizia per cui Velcoro si era sacrificato.
Noi telespettatori dovremmo essere estremamente grati che la televisione riesca a produrre elementi di tale fattura: True Detective è una serie che fa riflettere, in tempi in cui troppo spesso si lascia che il cervello si abbandoni alla passività.