“Traccia sfocata”.
So cosa potrà sembrare per chi non ne conosce il significato, ma in questo caso la memoria è protagonista, e la retorica batte la semantica in una partita a dama, dove ogni pedina mangiata è una sillaba di “un’espressione scarnificata” e depotenziata del proprio significato naturale.
A tal proposito: a cosa serve una “sana” digressione dal contesto, se non a mettere metaforicamente a nudo un concetto simile, ma che si contrappone idealmente?
Ciò che metteremo sotto lente d’ingrandimento, oggi, è una delle sequenze più deliziosamente sospensive e raggelanti di True Detective: la falsa testimonianza di Rust e Marty sull’incontro con Reggie Ledoux.
Con “traccia sfocata” viene intesa una particolare teoria psicologica secondo la quale la memoria umana sarebbe “conservata” in un sistema frammentato di più unità, tra le quali si differenziano in maniera diametralmente opposta le “tracce alla lettera” e quelle “di sostanza”.
Insomma, i fatti vengono ricordati: da una parte, per le loro dinamiche particolari; dall’altra, per il significato generale che l’avvenimento ha suggerito.
E’ da questo presupposto che nasce la possibilità di un falso ricordo.
Questo perché quando il significato generale di un avvenimento fittizio può combaciare con quello di un avvenimento vissuto, i ricordi tendono a mescolarsi come in una miscela omogenea di particelle idrofile che costituiscono uno scrosciante flusso di ricordi, generandone uno artefatto.
In gran parte fasullo.
La scelta di mentire di Rust e Marty è una scelta consensuale, minuziosamente programmata e magistralmente eseguita con dissimulazione emotiva ed accurata prudenza.
Una scelta che va oltre il processo inconscio che causa quella frustrante distonia tra ricordi che rastrella i passi sulla sabbia del passato, cancellandone la giusta traiettoria.
Tuttavia, qualcosa nella mente dei due (in quella di Marty, nello specifico) si è mosso perché quella “verità” resa tale in maniera artefatta fungesse da verità “oggettiva”, come a rimozione delle immagini che i loro occhi sono stati costretti a recepire: una visione che ha costretto lo stesso Marty ad un freddo e subitaneo omicidio.
E’ anche per questo, probabilmente, che le bugiarde parole dei due scorrono lisce sulle loro lingue, quasi come a volerle credere veritiere, senza innescare il minimo dubbio dall’esterno;
esattamente come a creare un “falso ricordo”.
Una bugia che va oltre il terrigeno scopo di salvarsi dalle accuse, e che in maniera latente vanta un ascendente altrettanto istintuale ma più nobilmente preservante: quello volto a sostituire una realtà destabilizzante, che come una tenia rischia di lacerare le labirintiche pareti nervose della mente, al fine di ricoprirla con il rassicurante mantello della menzogna.
E’ per questo stesso motivo che la mera bugia non è sufficiente: è necessario che il significato finale del finto racconto sia sovrapponibile a quello di ciò che è successo.
E’ ciò che accade, e che viene raccontato in maniera deliziosamente lenta e progressiva.
All’interrogatorio, Rust è giunto al momento del racconto che illustra l’arrivo al rifugio di Reggie Ledoux. Con mordace e ritmica sincronia si alternano, a quelle di Rust, le immagini dell’interrogatorio di Marty pronto a raccontare la stessa vicenda.
Rust si appresta a vendere la “verità” agli agenti che lo interrogano, con la rassicurante frugalità di un uomo d’affari. Al suo racconto, ed a quello di Marty, si alterna una terza sequenza narrativa che illustra il corso degli eventi parallelamente al momento in cui questi vengono narrati dai due agenti all’interrogatorio.
I due si addentrano nel bosco, come da racconto.
Scorgono l’abitazione di Reggie, come da racconto.
Poi i contorni cominciano a sdoppiarsi, a non essere più sovrapposti: le sequenze non sono più complementari. E tentenniamo, ma non siamo ancora sicuri di ciò che stiamo guardando.
Le onomatopee di Marty spiegano esplosioni e colpi d’arma da fuoco.
Rust mima il gesto di un mitra che spara a raffica.
Nonostante ciò, le sequenze che si alternano al racconto delle loro versioni ci mostrano un’incursione furtiva, senza complicazioni.
E’ qui che il dubbio crea sconforto, e comincia a sbiadire l’idea che le linee temporali siano semplicemente fuori sincrono.
“Staranno davvero mentendo?”, ci chiediamo con proverbiale incertezza.
La progressione assume forma, i racconti si discostano totalmente dalle sequenze che ci mostrano ciò che è accaduto nel macabro tugurio dei due discepoli del Re Giallo.
Con la velocità di un passo che non potrà evitare l’imminente verità, come in un paradosso zenoniano, lo spettatore cerca di fuggire alla suspense generata dalla quella stessa, prima lenta poi dirompente, progressione.
Capiamo di essere dinanzi ad un’insigne sequenza di immagini in discordanza che palesano una bugia necessaria.
Così, come prelevata da una fiala rigorosamente sterilizzata dal sapere oggettivo, quello iperuranico e puro per definizione, il concetto stesso di realtà viene estratto con il limato e gelido ago della convenzione per essere iniettato nella nostra percezione; senza passare per il condizionato giudizio dei sensi, senza rischiare di essere contaminato dalla conoscenza sensibile.
In un quadro mnemonico di inconsce rimozioni e necessarie sostituzioni, il concetto di “realtà universale” viene scardinato per presentarci come vero “noumeno” la singolarità, il soggettivismo e le convenzioni che regolano la conoscenza.
L’intera trama di Nic Pizzolatto veste la rugiada del surrogato di archè prestato al mondo manifesto, al fine di giungere ad un sapere soprasensibile.
In questa scena, lo fa assoggettando il concetto di ricordo e memoria in senso più ampio.
E lo fa ironicamente spiegandoci che la responsabilità della nostra memoria non è nostra, ma di chi ha l’obiettivo di rievocarla.
Ed è evidente che a Rust e Marty non siano state fatte “le caz*o di domande giuste”.
Dirottando la memoria, giocando a tetris con i ricordi, la realtà si trasforma in un fiume che non ammette un vero ritorno al passato.
Una linea retta, un fiume che scorre: i ricordi del passato, per Rust e Marty, devono necessariamente cambiare; devono prepotentemente sbracciare fino allo stremo per percorrere un fiume che non ammette soste o ellissi temporali; devono indirizzare il percorso, per poi abbandonarvisi, in quella corrente nella quale i ricordi non sono mai uguali perché “non si può discendere due volte nel medesimo fiume”.
Insomma, perché “tutto scorre”.