La memoria riveste un’importanza capitale nella terza stagione di True Detective; è il filo conduttore dell’intero racconto e di quell’unico caso, spalmato in tre decenni diversi, che percorre tutti gli episodi. Quando viene riaperto nel 1990, è dal ricordo di Wayne, evocato attraverso un interrogatorio e dalla sua partecipazione alle indagini, che inizia la narrazione degli avvenimenti del 1980. E quelli del 1990, a sua volta, vengono riesumati dall’Hays in versione 2015. In quest’ultima è un uomo anziano che, dopo la morte della moglie e i figli ormai divenuti adulti e indipendenti, è costretto a confrontarsi con quella vicenda così importante della sua vita, ma allo stesso tempo tanto frustrante, perché incompleta.
La sua memoria, però, fa acqua da tutte le parti, logorata ormai dal tarlo spietato della demenza senile.
Le sinapsi che collegano i suoi neuroni non riescono più a mandare i necessari impulsi per una corretta funzione dei processi cognitivi, tra cui quelli mnemonici. Anche se Wayne prova a combatterla attraverso la lettura del libro che Amelia aveva scritto sul suo caso. Inutilmente.
Wayne dovrebbe ripercorre linearmente i fatti che coinvolgono la scomparsa di Julie Purcell e leggerli quindi con obiettività e lucidità davanti alle telecamere. Ma semplicemente non può. Assieme a lui e proprio perché è il narratore inaffidabile di True Detective 3, veniamo coinvolti in un viaggio confuso, appannato, oscurato: è come se fossimo alla guida della nostra macchina in una notte di pioggia, con i tergicristalli che non funzionano. Questi ultimi, dunque, come la memoria di Hays, sono un’arma a doppio taglio che, non solo non assolvono più al loro scopo, ma fanno più danni del previsto. Non permettendo, quindi, di scorgere quella verità o quelle illuminazioni che arrivano solo con un’ottima visuale e il riaffiorare dei ricordi dimenticati.
Ma c’è dell’altro che ci fa capire quanto la memoria sia importante e non solo in True Detective.
Come disse il filosofo inglese John Locke, è attraverso di essa che ricordiamo tutti gli eventi passati, ci permette di riconoscerli come nostre esperienze e in questo modo possiamo formare la nostra identità personale. Il problema, però, è che la memoria non è pura e infallibile come credeva Locke, perché inquinata dall’emozione del presente che non ci consente di ricostruire fedelmente il passato; da quella nostalgia incapsulata e perfettamente resa da questi versi di Fernando Pessoa:
“Ma poiché in un cielo senza umani
calma fluttua la nuvola
e ciò ricorda una tristezza
e il ricordo rende tristi,
alla nostalgia do la ricchezza
di emozione che l’attimo tesse”
In True Detective 3 succede proprio questo. La memoria di Wayne è illusoria, ingannevole e confonde le indagini già nel 1990. Lo stesso uomo, poi, nel 2015 ricerca la propria identità in un qualcosa che scappa da lui sempre più velocemente, finché non sarà più in grado di prenderlo, né di capirlo. Quello che emerge, anche a causa dell’Alzheimer e del suo essere solo e depresso, sono ricordi scollegati tra di loro, attraverso i quali Wayne prova ad attribuire a quegli stessi eventi un nuovo significato, così che possa farlo ugualmente con la sua esistenza. E ciò che ricorda, in particolare nella sua vecchiaia, è influenzato dal momento presente e dalle emozioni che ne scaturiscono. Di conseguenza, non è possibile a queste condizioni che la sua identità – ma anche la nostra – sia la risultante di tutti i suoi ricordi: il passato, dunque, segue sentieri che si discostano dalla strada principale, ricongiungendosi solo in qualche punto per poi separarsi nuovamente.
La condizione di Wayne è ancora più drammatica se pensiamo che la sua mente era davvero brillante, ma ugualmente destinata al buio del dimenticatoio, a essere assorbita con tutta la sua luminosità e il suo genio da uno spietato buco nero chiamato Alzheimer.
E arriviamo, così, con lui e quasi nella stessa condizione, al finale di True Detective 3.
Lì dove, con il suo ex partner Roland, scopre la verità su Julie, cosa che potrebbe portare Wayne alla tanto desiderata chiusura. Però c’è qualcosa che non gli quadra. Rilegge il libro di Amelia e capisce – anche grazie a un’apparizione della moglie nella sua mente – che la ragazza non è morta. Riesce a trovare la sua casa e va ad affrontarla per concludere finalmente il caso ma, una volta arrivato da lei, si dimentica perché è andato in quel luogo. Ne segue una scena straziante in cui Julie aiuta l’uomo che ha passato 35 anni a cercarla, senza che i due siano effettivamente consapevoli dell’identità dell’altro. Sebbene lei abbia un momento di possibile realizzazione (forse avrà visto Wayne in TV) e sua figlia Lucy sembra riconoscere il vecchio detective, nessuno lo afferma esplicitamente.
Si crea una dissonanza potente in cui noi, il pubblico, conosciamo la verità e lui, il protagonista, sarà per sempre incapace di coglierla. Otteniamo quella chiusura che Wayne non avrà mai, andando nella tomba ignaro del fato della sua Julie. Eppure, proprio perché ci immedesimiamo nel detective, il caso risolto non lo è affatto, nemmeno per noi, diventando una sorta di gatto di Schrodinger la cui gabbia è costituita dalla fallace memoria di Hays.
Tuttavia, True Detective lo trasforma in un momento catartico.
È grazie a questo che Wayne si ricongiunge con la figlia Rebecca, risolvendo l’altro grande enigma della stagione e mostrandoci da cosa derivi gran parte della motivazione e della spinta di Wayne. Quell’assenza in True Detective è radicata nella memoria debole di Hays, lasciando un vuoto nella sua vita che non può essere riempito poiché il suo problema (la malattia) non può essere risolto.
Eppure, anche se non può guarire da quella condizione, alla fine è sicuramente in un posto migliore. Dopo essersi riconnesso con la figlia e con Roland, nella tranquillità della sua vita e mentre due bambini passano in biciletta ha un ultimo ricordo. Nel 1980, subito dopo che Wayne e Amelia hanno litigato per l’articolo dell’indagine sui fratelli Purcell, si riconciliano e vanno al bar insieme. Questo momento felice e insolito, in una relazione costellata da complicazioni, è ciò che Wayne cerca per l’intera stagione. Il suo punto di non ritorno, una mattonella fondamentale nella costruzione di quell’identità che la malattia gli sta portando via.
Perché aggrapparsi a un obiettivo concreto come un caso da risolvere è più facile che continuare una ricerca senza la certezza di raggiungere quello che vuole. O di riconoscerlo; Rust Cohle lo sa bene. Ma se prima non conosce sé stesso, non comprenderà mai gli altri, non porrà mai le domande giuste, non troverà mai il suo posto nel mondo. E forse è davvero questo il vero dramma – e paradosso – di Wayne Hays, risucchiato da un morbo senza scampo, che gli sta togliendo l’importanza della memoria. Abbandonandolo allora solo, sotto la pioggia, con dei tergicristalli che non funzionano più.