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La terza stagione di True Detective è come la prima stagione

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Abbiamo visto in anteprima, grazie a Sky Atlantic, le prime cinque puntate (su otto) della nuova stagione di True Detective con protagonisti Mahershala Ali e Stephen Dorff: la recensione che segue, spoiler free, cercherà di evidenziare le tematiche che fino a questo momento emergono e soprattutto ci chiederemo se questa stagione avrà un destino più simile a quello della prima o della seconda.

Due bambini scomparsi. Tre diverse fasce temporali. Due detective dell’Arkansas. Filosofia e psicologia. In poche parole: la terza stagione di True Detective. È arrivato il momento di immergersi in questo nuovo viaggio nella mente umana.

È con Death Letter di Cassandra Wilson in sottofondo che Nic Pizzolatto decide di far scorrere i titoli di testa e la sigla iniziale: la canzone, appartenente a un jazz ormai dimenticato, parla del lutto e di ciò che di solito si fa per rielaborarlo:

“Well I got up this mornin’
The break of day
Just huggin’ the pillows
He used to lay”

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Questa nuova stagione di True Detective è fortemente incentrata, infatti, sul concetto di perdita. I nostri due protagonisti, i detective Wayne Hays e Roland West sono due anime smarrite: risolvere il caso non è solo un obiettivo professionale, ma anche un modo per potere, nell’arco di 35 anni, completare un percorso di ricerca di se stessi che non può che essere tortuoso e a tratti impossibile.

Il caso e il tempo, appunto. L’Arkansas, come detto, è lo sfondo forestale e a tratti paludoso (richiama in parte le caratteristiche della Louisiana della prima stagione) di un caso del novembre 1980 dalle tinte macabre. Nel primo episodio, infatti, spariscono i figli di una coppia in crisi, la cui prima azione è puntare il dito l’uno contro l’altra. Il regista Jeremy Saulnier (che si è diviso il compito con lo stesso Pizzolatto e con Daniel Sackheim) rende, attraverso la tecnica dello slow motion, inquietanti (come in un horror) frame in cui sono dipinti semplici movimenti dei personaggi: gli sguardi di ragazzi adolescenti, di passanti, di un uomo che guida un trattore si focalizzano tutti sui due bambini, fratello e sorella, che passano per quelle strade con le loro biciclette.

Tutti coloro che hanno osservato quella scena saranno poi inseriti nella lista dei sospettati. Una tecnica narrativa interessante, scelta per questa stagione di True Detective, sta proprio nel modo in cui viene raccontato il caso. Se da un punto di vista del susseguirsi degli eventi viene ripreso lo stile narrativo della prima stagione (il detective che racconta ad altri detective la sua versione del caso di un decennio prima), dal punto di vista del rapporto tra gli spettatori e l’azione dei detective ci troviamo su un piano differente: l’audience, infatti, non è lì ad aspettare il colpo di genio di Hays e West, ma dispone degli stessi mezzi degli investigatori per risolvere il caso. Ecco perchè, nel 2015, il caso è ancora irrisolto.

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Ma veniamo alla questione temporale, appunto. Come anticipato, da un punto di vista cronologico la storia inizia il 7 novembre 1980 (viene sottolineata per due volte la coincidenza di questa data con la morte di Steve McQueen): in questa fase, la serie ci mostra tutti i dettagli del caso, interrogatori e dissemina indizi che possono aiutare i detective e gli spettatori. Ovviamente, più passano le puntate e meno frequente sarà la presenza del 1980.

La seconda fase, invece, si svolge nel 1990, ben dieci anni dopo gli eventi: il caso non è ancora risolto ma soprattutto il detective Hays non si è dato pace fino a quel momento. L’ultima, che curiosamente è quella con cui inizia la serie, è addirittura nel 2015: i due protagonisti sono ormai vecchi e, almeno per quel che si vede in queste prime cinque puntate, Hays è affetto da demenza, sensi di colpa e perseguitato da visioni e allucinazioni.

Le tre fasce temporali, tuttavia, non sono narrativamente slegate fra loro: ad unirle ci sono sia espedienti tecnici (visivi, come una lampada che fa da collante tra una scena del 1980 e una del 2015, oppure più generalmente sensoriali, come suoni o bruschi movimenti di camera) che situazioni di mistero (come apparizioni impossibili se non affidandosi al paranormale) che fanno tingere queste stagione di True Detective di tinte thriller/horror.

L’inquietudine che riesce a trasmettere questa prima stagione è assolutamente allo stesso livello di quella vissuta nelle due stagioni precedenti. E non si può parlare di True Detective, inoltre, senza riferirsi a filosofia e al simbolismo. Una frase detta da un personaggio (un sospettato interrogato dai due detective nel 1980) può aprire scenari interpretativi in relazione alla filosofia che Pizzolatto ha voluto trattare:

“Non mi chiedo perchè faccio questa vita”.

È una risposta che, a ben vedere, potrebbe dare chiunque nella serie. Soprattutto i due detective. Dobbiamo aspettare il finale, tuttavia, per affermare se possa essere considerata una frase simbolo della stagione. Di certo simboli interessanti, invece, sono la volpe (che West prova a sparare nella notte della scomparsa dei due bambini) e le bambole (trovate nei boschi in cui Hays, da vero poliziotto segugio, cercava tracce per trovare i bambini).

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La volpe è probabilmente l’animale selvatico con il simbolismo più variegato in assoluto. È generalmente riconosciuto come animale notturno e simbolo di preveggenza, ma è interessante l’interpretazione che le attribuivano i Nativi Americani: per quelli delle Grandi Pianure la volpe inganna le persone, conducendole addirittura alla morte. Poco dopo la sua apparizione, i due detective riceveranno la chiamata per la scomparsa dei bambini. Inoltre, uno dei sospettati è proprio un Nativo Americano.

La bambola, invece, oltre ad essere un giocattolo, simboleggia inevitabilmente la femminilità domestica. La loro presenza nel bosco suona dunque come un controsenso: i bambini sono fuori di casa, come le bambole. Non dovrebbe essere così. Proviamo disagio nel comprendere che questi giocattoli potrebbero essere usati come mezzi per adescare i piccoli. Ciò che Hays scopre alla fine del percorso fatto di bambole nel bosco, infatti, è terribile.

La terza stagione di True Detective, fino a questo punto, è molto soddisfacente. Merita una promozione ma è ovvio che il finale di una serie è tutto, pertanto il giudizio in questo senso è sospeso. Quello su cui non c’è già alcun dubbio è la magistrale interpretazione di Mahershala Ali: maestoso, forte, fragile, in una parola umano.

Questo è un piccolo assaggio di ciò che vedrete. Appuntamento al 14 gennaio alle 3.00 su Sky Atlantic (versione sottotitolata) e al 21 gennaio alle 21.15 per quella doppiata in italiano. Appuntamento qui, su Hall of Series, per le recensioni dei singoli episodi a partire dal 14 gennaio.

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