Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla seconda stagione di Tulsa King.
Quando ci si approccia a una nuova serie tv, è sempre fondamentale tenere a mente un aspetto chiave: avere chiaro cosa aspettarsi, cosa si stia guardando esattamente ed evitare di chiedere a una serie tv di essere quello che non lo è. Suona come una banalità, e per molti versi lo è. Tuttavia, ci si imbatte spesso in recensioni e critiche del pubblico che sembrano andare in una direzione alternativa. Potremmo fare numerosi esempi in tal senso, mentre oggi ci concentreremo su una serie tv in particolare: Tulsa King.
La serie tv, disponibile su Paramount+, è appena arrivata al traguardo finale della seconda stagione, è già stata rinnovata per la terza e ha registrato numeri in forte crescita rispetto ai (pur ottimi) risultati della prima. Merito di uno dei principali Re Mida delle serie tv contemporanee, Taylor Sheridan, creatore di Tulsa King, ormai ovunque nei palinsesti di Paramount+ e sempre capace di portare a casa dei prodotti di livello. Ma anche di Terence Winter, decano degli sceneggiatori televisivi che ha alle spalle una carriera che pochissimi altri possono vantare. Winter, showrunner della prima stagione e sceneggiatore influente della seconda, è tra le altre cose il creatore di Boardwalk Empire e uno dei principali autori dei Soprano.
Per non parlare di Sylvester Stallone, protagonista assoluto di Tulsa King. L’attore si è calato nella dimensione televisiva col carisma e l’esperienza di un numero uno assoluto.
Insomma, sarebbe stato difficile non aspettarsi un successo da una produzione tanto ambiziosa. Per carità: falliscono anche i più grandi e un trionfo non è mai banale anche quando presenta i migliori presupposti possibili, ma non è certo una sorpresa assoluta. Nonostante ciò, c’è molto da dire a proposito di Tulsa King, sospendendo la recensione della seconda stagione tra i suoi innegabili meriti e gli altrettanto evidenti limiti. Con una premessa obbligatoria, la stessa con la quale abbiamo aperto il pezzo: affinché si possa gradire fino in fondo una serie tv del genere, è fondamentale prenderla così com’è. Chiedendogli di essere quello che è nel suo Dna, evitando deviazioni di rotta che porterebbero a sviare gli utenti.
Perché affermiamo tutto ciò? Perché Tulsa King sfugge alle più rigide catalogazioni di genere, dando vita a un prodotto ibrido dalle forme variegate. E presenta un rischio pericolosissimo: aspettarsi di vedere un’erede dei Soprano e di Boardwalk Empire. Inevitabile, visto che c’è Terence Winter di mezzo e le presenze di Stallone e Sheridan facevano presagire una serie tv dai tratti prettamente drama. Ma non è così, affatto: se fosse quello il presupposto della visione, si rimarrebbe fortemente delusi. Se invece si pensa a una dramedy, una vera e propria dramedy, tutto cambia.
Conclusa la lunga premessa, passiamo a un’analisi più approfondita della seconda stagione di Tulsa King.
Stabilire dei punti fermi per una recensione del genere porta a evitare dei fraintendimenti. A chi vi scrive, la seconda stagione di Tulsa King è piaciuta (parecchio). E la consiglierebbe a chiunque abbia voglia di assistere a una delle migliori interpretazioni dello Stallone contemporaneo e a qualche ora di ottima tv. Una tv scritta e realizzata col fine chiaro di intrattenere e divertire il pubblico. Ci riesce? Assolutamente sì: non ci si annoierà mai con un’opera di questo tipo, e coi tempi che corrono è di per sé oro che cola.
Se però si dovesse interpretare l’operazione complessiva nel lungo solco delle serie tv a sfondo mafioso che hanno caratterizzato gli ultimi venticinque anni del piccolo schermo, la resa drammatica della stagione sarebbe insoddisfacente. Insoddisfacente e con vari appunti sulle numerose forzature che hanno caratterizzato il secondo atto di Tulsa King.
Per intenderci: nella seconda stagione ancora più che nella prima, le finalità comiche della serie, improntata su una narrativa piuttosto disimpegnata anche in alcuni momenti carichi di intensità, hanno assunto una centralità importante.
Qui, per esempio, si distingue fortemente dai Soprano. Se da un lato avevamo avuto il drama per eccellenza della storia televisiva, valorizzata da momenti che suscitano una forte ilarità e rendono più fruibile la visione senza mai smorzare la tensione drammatica, dall’altra abbiamo una dramedy che (talvolta) non si prende abbastanza sul serio (anche quando sarebbe stato interessante farlo). Al contrario, la tensione è smorzata a più riprese, senza penalizzare per questo la visione.
Facciamo un esempio, su tutti: la scena del funerale di Jimmy the Creek.
Un momento dal forte lirismo e con un nucleo emotivo che ci porta a empatizzare fortemente con la situazione e i personaggi. Un momento da grande serie tv, come molti altri ne abbiamo visto nel corso della seconda stagione. Un attimo dopo, però, assistiamo a una sequenza da pura comedy con il viaggio di ritorno in auto, caratterizzato dalle battute sciocche di Tyson. È un problema? I Soprano non l’avrebbe mai fatto, con questa gestione dei tempi. Tulsa King, però, è altro. Ed è assimilabile alla narrativa di una dramedy contemporanea che non rinuncia a situazioni dal forte tenore drammatico (o viceversa, come nel caso di Succession).
È solo un esempio, ma rende l’idea. Tulsa King ha altri scopi e finalità: non centra obiettivi che non si è mai preposta. Perché farne un problema, quando non lo è prima di tutto per gli autori espertissimi che la scrivono?
Diversa, in parte, la questione che riguarda le numerose forzature riscontrabili nelle trame della seconda stagione di Tulsa King. Penalizzata da uno screentime un po’ troppo stringato – gli ultimi due episodi superano a malapena i 70 minuti complessivi – e dall’esigenza di portare plot complessi da un punto A a un punto B con eccessiva rapidità, Tulsa King scivola in alcuni momenti più critici. Momenti in cui sospendere l’incredulità diventa più difficile e si arriva addirittura a peccare di incoerenza interna.
Per dire: quanto può essere credibile l’idea che Dwight, il protagonista, si difenda da solo in un processo nel quale subisce gravissime imputazioni, uscendone vincitore pur non avendo alcun background nel campo della giurisprudenza? Quanto è credibile l’idea che uno come Thresher, un tycoon che collabora con pericolosissimi criminali, giri senza una scorta e sia soggetto a rischiare la vita più volte con tale semplicità? E cosa dire della temibile Triade asiatica, annientata in pochi istanti con un colpo a effetto dai tratti persino grotteschi, per la dinamica innescata in quel momento?
Non è finita. Che senso ha ridurre ogni potenziale spazio di trattativa finale tra Manfredi, Bevilacqua, Thresher e i boss newyokesi a un’asettica accettazione delle condizioni radicali imposte dal primo?
Perché Dwight si prende (quasi) tutto e gli altri arrivano (quasi) a non mettersi di traverso? Sì, chiaro: Bevilacqua ottiene il 50% richiesto dopo aver ucciso Chickie, ma basta questo per rendere meno surreale la situazione? No, ma in fondo è un errore soffermarsi oltremisura su elementi di questo tipo. La finalità ultima è intrattenere, stupire lo spettatore e divertirlo, in ogni momento. A tutti i costi, esagerando con la consapevolezza di farlo.
Le forzature e le situazioni ben al di sopra delle righe, allora, assumono uno scopo diverso nel momento in cui fungono da tramite pretestuoso per dar vita a più di una scena dal forte impatto. Le situazioni che hanno portato alle morti di Chickie e dei membri della Triade, d’altronde, sono momenti di grande televisione. E non sono certo gli unici dell’annata. Lo sono finché non si pensa a come si arriva a tutto ciò.
L’unico momento davvero irricevibile è una delle scene più importanti della seconda stagione di Tulsa King. Ci riferiamo, in questo caso, alla scena che ha portato all’esplosione dell’auto in cui è quasi rimasto ucciso il padre di Tyson.
Che senso ha portare un personaggio interamente incentrato sul rifiuto della vita criminale del figlio ad accettare il regalo dell’auto, col solo scopo di posizionarlo nel posto sbagliato al momento sbagliato? Nessuno, al di là di ogni possibile giustificazione. La scelta, piuttosto pigra e fondata su una successione di coincidenze e anomalie piuttosto assurde, pesa nella valutazione della stagione.
Una macchia, all’interno di un bilancio comunque positivo. Tulsa King, pur spingendosi spesso oltre il limite della credibilità, porta a casa una stagione brillante e divertente, valorizzando protagonisti e personaggi secondari attraverso una vocazione più corale. Si conferma, così, tra i prodotti più interessanti del panorama televisivo attuale. Sognavate qualcuno che raccogliesse l’eredità de I Soprano e Boardwalk Empire, dopo aver letto i nomi coinvolti e una trama che si sarebbe prestata tranquillamente a uno scopo del genere? Dovrete rivolgervi da un’altra parte: Tulsa King è fatta di una pasta diversa. Nel bene e nel male, va benissimo così.
Antonio Casu