Ai lottatori, ai pazzi. Si apre con questa dedica e invocazione Tutto chiede salvezza, il romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli, vincitore del Premio Strega Giovani 2020, cui si ispira la nuova Serie Tv prodotta per Netflix da Picomedia con la regia di Francesco Bruni (Scialla! Stai Sereno, Il Capitale Umano, Ovosodo) che ne firma anche la sceneggiatura insieme a Francesco Cenni e Daniela Gambaro, con il contributo dello stesso Mencarelli. Perché è una grande responsabilità trasformare in un prodotto di entertainment televisivo popolare la poesia incisiva, scritta nella carne della pagina, che taglia il romanzo dell’autore e poeta romano.
Tutto chiede salvezza è un atto lirico, straordinario, una preghiera struggente alla vita per le anime più sensibili.
Protagonista della serie è il giovane Federico Cesari, già caro al pubblico per il ruolo di Martino, uno dei personaggi più amati, elemento trainante dei 5 migliori episodi di Skam Italia. Accanto a lui attori noti come Ricky Memphis nei panni di un cinico, stanco, razzista infermiere, Carolina Crescentini, Filippo Nigro; e meno conosciuti ma di incredibile intensità e immaginifica rappresentazione dei volti, come Lorenzo Renzi (Giorgio), Vincenzo Nemolato (Madonnina), Andrea Pennacchi (Mario) e Vincenzo Crea (Gianluca). Sono loro i pazzi nella stanza in cui finisce il ventenne Daniele (interpretato da Federico Cesari) di una clinica romana – Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura – dove deve trascorrere 7 giorni recluso per un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio).
Sono loro i 5 pazzi “che piangono quando amano e ridono quando soffrono”.
Madonnina, chiamato così perché per tutto il tempo si rivolge straziato alla Madonna “Maria, ho perso l’anima”; Gianluca, il ragazzo che porta dentro di sé, come un sortilegio della vita, una parte bianca e una parte nera e smalta le sue unghie di mille colori; Mario, che un volto così buono non si è mai visto, elegante nel suo pigiama lungo con vestaglia – in piena estate con 35 gradi fuori – perché, senza pesanti indumenti, si sente nudo; Alessandro (Alessandro Pacioni) catatonico, inchiodato al letto, prigioniero nel suo corpo, con la mente che chissà dove sia finita… meglio pensarla spenta che accesa quando il padre ripete la routine, insabbiata dal senso di colpa, devastata dalla tragedia che gli è capitata, e viene a trovarlo, gli dà da mangiare. E gli tocca la mano immobile. Meglio pensare che la mente non ci sia e che non sia invece la malattia a imprigionare un pensiero cosciente in un corpo morto. Tutto chiede salvezza parla all’anima, la imbocca e la accarezza, svela senza retorica l’ingiustizia e l’insensatezza della vita. E poi c’è Giorgio, un omone grande, un gigante buono con la testa e il cuore di un bambino. Un bambino che non aveva niente fin quando lo hanno privato di vedere sua mamma prima che morisse.
Uno strappo brutale che si porta dietro nel tempo, che segna la sua pelle con ferite per tenerne memoria, perché “non se more così, senza salutare”.
La lingua di Tutto chiede salvezza è un italiano con cadenza romana, che ricorda certi versi di Pasolini, che arriva forte, dritta al cuore. È una lingua fisica che fa luccicare gli occhi di purezza, pianto e pietà.
Mencarelli la chiama Salvezza; cerca, indaga e trova questa parola per provare a dare un senso all’insondabile tormento, il tormento di chi non sa godere neanche della felicità, anche quando la felicità esiste ed è così forte che potrebbe accendere i lampioni di una lunga strada. Eppure felici non si riesce a essere.
Depressione maggiore, bipolarismo misto, benzodiazepine, ansiolitici sono le diagnosi e le cure che i medici scrivono, le parole e le sintesi chimiche che provano a offrire per descrivere un male che Daniele – Federico Cesari riesce bene a trasmetterlo – sente e non sa cos’è. È questa la malattia? È questa la pazzia? La domanda profonda, travolgente ci catapulta dentro l’empatia di chiederci anche noi “come si fa a curare la ferocia della vita?” Come Mario, Giorgio, Gianluca, Alessandro e Madonnina, chiunque può soffrirne. Alcuni più e altri meno.
La barca dei pazzi dà sempre il benvenuto a chi ha navigato tra le bufere, ha perso le persone più care, e poi se stesso.
Come si sopravvive a questo dolore che intacca l’anima e fa sentire dentro di sé ancora più forte il dolore degli altri e del mondo? Tutto chiede salvezza ma ogni cosa – basta un tocco – facilmente ferisce. Federico Cesari ha dichiarato come gigantesco fosse il compito di indossare il giovane, umano, poeta, ipersensibile che è Daniele. Indossarne la rabbia e la nostalgia, il desiderio di bellezza e l’impulso all’autodistruzione.
Rappresentare l’intimità del dolore descritta da Mencarelli è difficilissimo e il suo partecipare alla sceneggiatura ha certamente inciso sulla fedeltà della serie al testo e sulla sua riuscita bellezza. Sono molte le parti in cui rappresentazione visiva e poesia camminano insieme.
A differenza del libro, ambientato negli anni ’90, per Netflix si è decisa la trasposizione nel nostro tempo contemporaneo. Ci sono le discoteche, Instagram e i colpi di coda nella vita di un’influencer. È il caso di Nina (Fotini Peluso) la ragazza famosa in cui Daniele si imbatte nei 7 giorni di ricovero forzato.
Dall’altra parte dei corridoi, dove stanno le donne, e non i cattivi come gli infermieri raccontano per evitare che pazzi e pazze si incontrino e magari, nel subbuglio emotivo, diano vita un figlio della follia. Nina è un’influencer e attrice consapevole di non valere, attaccata sui social, odiata e sotto l’egida di una madre (Carolina Crescentini) che vuole fare di lei la bambolina del successo. Nina quindi si taglia le vene e finisce in TSO.
Anche lei è una sorella, simile a Daniele, e forse messa peggio. Questo fil rouge della serie, su Netflix, prende forme diverse dal romanzo ma, proprio per questo, rende il capitolo della loro storia una letteratura più vicina ai più giovani. Trasmette il senso di rovina ma anche la forza che soggiace alla pazzia. Perché la pazzia “è non cedere, non inginocchiarsi mai”.
Sono 7 giorni lunghi come anni per Daniele perché il dolore crea un peso faticoso da portare. Il dolore si espande e si mischia a quello dell’altro. In principio questo triste ragazzo – il viso dolce di Federico Cesari ne rende la sensibilità – odia tutto ciò che gli sta intorno. Questi matti devono rimanergli lontani. Lui non è come loro, anzi ne prova anche disgusto. Piano piano però nell’aspetto scheletrico di Madonnina che urla e si dispera perché ha perso l’anima, Daniele vive la compassione.
Il suo aspetto è una triste conseguenza, è la cera consumata della candela.
Quello che mi fa piangere è la brace nera che gli consuma gli occhi.
Quale malattia può mettere sulle spalle di un uomo un peso così enorme?
Progressivamente questi matti diventano i suoi fratelli, quanto di più simile alla sua natura. C’è una magica gentile bellezza nell’anziano maestro di scuola Mario, in vestaglia, seduto dinanzi alla finestra che ogni giorno cerca la sua luce nell’amicizia di un uccellino che viene a trovarlo. Qualcuno pensa che l’uccellino sull’albero non ci sia. Poco importa.
La poesia– sia nel romanzo che nella bellissima serie Netflix – è anche questa: la sensazione disumana, incompresa di affogare nella propria mente. Dall’altra parte, la capacità di lanciare lo sguardo verso l’orizzonte, oltre gli alberi, amare il tramonto di un sole che spegne un’altra giornata coraggiosa, sulla nave dei pazzi.
Senza voler spoilerare la fine della serie, che diventa sempre più intensa episodio dopo episodio, giorno dopo giorno, arriviamo al sabato. Giorno di dimissioni, di diagnosi e prescrizioni per qualcuno, di gesti estremi e dolore fisico per altri. Dolori alle ossa, dolori nel cuore.
Una settimana che, dall’abuso di sostanze e dal farsi e fare male con incoscienti catastrofici gesti, trasforma il dolore in gioia, e la gioia in nostalgia.
Il finale è poetico. Ecco perché non siamo qui a scrivere di una serie tv ma di una lunga poesia, con un cast che, dal protagonismo di Filippo Cesari, si dispiega attraverso gli altri personaggi. Assurdi, buoni, infelici, veri.
“I miei fratelli”, reciterà Daniele, “Fratelli offerti dalla vita. Indifesi di fronte alla propria condizione di esposti alle intemperie, uomini nudi abbracciati alla vita schiacciati da un male ricevuto in dono”.
Tutto chiede salvezza è una serie che ispira coraggio e amore, fa sorridere, piangere e pregare per i nostri vivi e i nostri morti. Per quelli che amiamo e per quelli che ancora avremo da incontrare lungo il tracciato dell’esistenza. Non è una semplice dramedy e non è vero che diverte, neanche nei momenti leggeri. Non potrebbe quindi rientrare, seppur strepitosa, tra le migliori serie tv dramedy di sempre . Può generare momenti di tristezza ma non si classifica neanche tra le serie tv più tristi di Netflix. Perché il desiderio di gioia e di vivere e il bisogno di infinito pulsano più forti che mai, dentro e fuori da quella stanza d’ospedale.
Quello che leggiamo nel romanzo e vediamo nella serie Tutto chiede salvezza non appartiene ad alcuna categoria, se non quella della poesia.
Oltre la riflessione sulla salute mentale, è una preghiera in ginocchio. Per “i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia”. Per gli outsider, gli artisti, le anime inquiete e sensibili, i mistici, per coloro che non sanno chiedere aiuto, avvelenati da se stessi, ma cercano ogni giorno altri destini, conforto e salvezza. Nelle madri, in tutte le madri. E la possibilità di addormentarsi, sperare di dormire, almeno una notte, senza paura.