Parlare di Twin Peaks non è mai stato facile e non lo diventerà certo oggi. L’attesissima terza stagione ha dato adito a polemiche e querelle infinite, ma non serve che ve lo dica. Alla fine si tratta di Lynch, si tratta di Twin Peaks: cosa vi aspettavate? Se ci si esprimesse con i profumi, non sarebbe mai acqua di rose. Eppure, forse, questo articoletto senza pretese si discosterà (quanto basta) dal dibattito critico: scordatevi il gusto per l’analisi, l’approccio ermeneutico, la critica cinefila. Se due mani sono qui a mettere in fila parole, ora, lo fanno mosse da un istinto ben più vago e intenso del raziocinio: questa è una dichiarazione d’amore.
Sì, con Lynch, con Twin Peaks capita anche questo: ci si innamora. Di un’idea, di una visione, di un’atmosfera, di un mondo, di una storia.
Si tratta di un viaggio sentimentale, emozionale; niente di assoluto, nessuna pretesa di universalità: solamente quello che Twin Peaks è stato, almeno per qualcuno.
Forse suonerà impopolare, ma per me Twin Peaks è, prima di tutto, un’esperienza sensoriale. Discutendo con il collega e amico Vincenzo Bellopede, si parlava del dualismo che permea questa Serie Tv, proprio partendo dal titolo. Anche in questo caso, ecco che ritorna il tema del doppio: antropomorfizzando la questione, spesso si attribuisce una grande importanza alla mente di Twin Peaks, ma il corpo è così sensuale e affascinante che non parlarne è uno spregio.
Prima di procedere è necessario un flashback, giusto per inquadrare la situazione. L’incantesimo è avvenuto subito, con il pilot della prima stagione. Era un pomeriggio autunnale, la sigla mi è entrata nelle orecchie e mi ha trascinato dentro lo schermo: la rottura della quarta parete, sì, ma al contrario. Niente strattoni, una cosa naturale, fluida, erotica addirittura (nell’accezione più ampia del termine). Vorrei che provaste proprio a figurarvi un soffio di vento che esce dello schermo, si insinua nel vostro padiglione auricolare e vi rapisce. Siete forse ad Hamelin? Una melodia in un alito d’aria che riesce a cambiare le condizioni atmosferiche del mondo in cui vivete: il pifferaio magico è Angelo Badalamenti.
Conclusa la visione, non riuscivo a pensare ad altro: chi ha ucciso Laura Palmer?
Il mio appuntamento seriale divenne fisso. Ogni momento libero, non era più libero: me ne andavo in giro per Twin Peaks. Quando gli amici mi domandavano della mia “ossessione”, quando mi chiedevano di spiegare loro quantomeno la trama, mi ritrovavo sempre a dire che era morta Laura Palmer e poi arrabattavo qualche discorso abbastanza indegno, ché non riuscivo a spiegarla bene, quella follia, quella magia.
Non serve vada avanti, nessuna delle Serie Tv che precedettero o seguirono la scoperta di Twin Peaks è stata paragonabile. Quando ho letto della terza stagione, mi sono riscoperta entusiasta e terrorizzata al tempo stesso. Non sapevo cosa aspettarmi: si poteva davvero mantenere il tenore estetico, narrativo ed emotivo di venticinque anni prima? Come quando stai per riincontrare, dopo molto tempo, un amore passato, vivevo con la tremenda voglia di vederla e l’annichilente paura della delusione. Ti ho amato così tanto, e guarda cosa sei diventato, (riscoprirsi a temere questa frase).
Ma eccoci finalmente al nocciolo della questione. Nella chiacchierata con l’amico di cui vi ho detto, cercavo di spiegargli che la sensualità, il potere di Twin Peaks, per me, risiede tutto nella commistione di familiarità e straniamento. Nel corso delle prime due stagioni era proprio questa la sensazione: mi sentivo a casa, conoscevo ogni personaggio, ogni via, ogni locale; mi sembrava di sentire gli odori (primo fra tutti, quello del caffè di Cooper). Al contempo, tuttavia, mi pervadeva uno stato di angoscia, di estraneità e mi inquietavo. Mi innamorai dell’equilibrio fra questi due turbolenti modi di sentire. Me ne innamorai come capita con le cose intime e oscure, quelle che conosci da bambino, ma non afferri mai del tutto.
Sarà banale, ma la prima cosa che mi ha infastidito della terza stagione è stato l’avvento della modernità. Ogni volta che in Twin Peaks non eravamo in Twin Peaks, mi innervosivo. Non ritengo questa fosse una scelta narrativa sbagliata, anzi, la trovo coerente con l’ineluttabilità del trascorrere del tempo. Ma abbiamo chiuso la razionalità nel cassetto delle cose dimenticate, e ogni ambientazione che esulasse dalla cittadina per me era un corpo estraneo, pronto a infettare la meraviglia.
Ci ho messo un po’ ad apprezzare questa terza stagione. Ogni volta che ricompariva un personaggio mi commuovevo nel rivederlo, ma lo sentivo più lontano, più estraneo e me ne dispiacevo (quanto mi hai fatto soffrire, Dale). Ogni gesto era un colpo al cuore difficile da definire: il volto di Diane, la maturità di Bobby, l’assenza di Harry, Audrey e il suo essere, ormai, una donna. Il mio vagare, questa volta, è stato lento. Rabbia e affetto si alternavano, nella visione. La domanda perpetua: è un genio o ci prende per i fondelli e basta? Poi gli ultimi due episodi e la certezza di aver trovato la risposta: è un genio, un dannato genio. Ed è proprio in questa circolarità nietzschiana del tempo, in questo eterno ritorno, in questo mescolarsi di passato e futuro che si ha l’intuizione di quel che Twin Peaks è. La familiarità di un passato, per quanto turpe, e l’inquietudine del suo mescolarsi al futuro.
« Nell’oscurità di un futuro passato
il mago desidera vedere.
Un uomo canta una canzone tra questo mondo e l’altro.
Fuoco, cammina con me »
Viviamo tutti in un sogno, questa l’eredità lynchiana, affidata al penultimo episodio. E se il sogno in cui viviamo è Twin Peaks, forse è bello indugiare nel sonno. Twin Peaks entra in noi come Bob nei suoi ospiti. O forse esce da noi, sotto forma di manifestazione audiovisiva di quel che di oscuro e caotico c’è in ogni Uomo.
E se sarà sempre difficile dire quel che Twin Peaks voleva essere e sarà, ormai é chiaro quel che Twin Peaks é stato: un’esperienza inedita, uno specchio opaco nel quale rifletterci, una famiglia, una storia che andava raccontata.
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