Sarebbe facile dire “tutto”. Sarebbe altrettanto facile dire “sta funzionando alla grande”. Il problema, con Lynch e con Twin Peaks, è che gli assoluti non esistono. Sono I-NE-SIS-TEN-TI, come quel grido e quel monito lanciato in quella prima puntata che ci sembra lontana anni luce. Lynch è tornato dopo 25 anni, e per quello che ha da dirci non possiamo mai essere abbastanza pronti. Il problema è che non sembra esserlo del tutto neanche lui. E vi spieghiamo perché.
La troppa carne al fuoco, innanzitutto. Non succede quasi niente, inteso in senso di azione o dialogo, o qualunque sia lo strumento “convenzionale” attraverso il quale la storia procede, eppure gli elementi che ci vengono dati sono tantissimi, e non sono minimamente spiegati in qualche modo o rivestiti di significato; sono input che per la maggior parte accumuliamo in una zona grigia del nostro cervello e che dimentichiamo poco dopo (basti pensare alle sequenze numeriche: provate a riepilogarle tutte, non ci riuscirete). Ci vengono presentate una serie infinita di situazioni e personaggi che, anche se già conosciamo, rivediamo in una veste completamente nuova, senza il tempo di ambientarci, perché la storia che Lynch vuole raccontarci si compone di troppi elementi perché ci sia il tempo di assimilarli tutti e crogiolarsi nella loro bellezza estetica.
Bisogna andare avanti, prepararsi a un’ennesima valanga di informazioni dateci perlopiù in modo sconclusionato che si sommano alle altre, rendendoci impassibili. Possiamo scegliere se accettare il fatto che “non stiamo capendo nulla” e goderci le immagini che Lynch ci mostra, o tormentarci nello sforzo di comprendere qualcosa che non ha senso ma che si presenta come se lo dovesse avere per forza. E questo ci porta a un altro punto fondamentale.
Il cambio di registro ci spiazza. Il taglio da soap opera dell’assurdo, piaccia o meno, è quello che ha distinto Twin Peaks da qualsiasi altro prodotto seriale della sua epoca e di quelle successive, e sebbene provenga più da un’imposizione del network che da un’iniziativa di Lynch, è il marchio che ha fatto la fortuna della Serie e ha contribuito a collocarla nell’Olimpo delle Serie Tv. Assassinare letteralmente il tenore grottesco e ironico della Serie, marchio sì tipico degli spensierati anni Novanta ma assolutamente credibile e necessario anche ora, è un torto che Lynch stesso fa alla sua creatura, forzando quello che era sempre stato identificato come un prodotto anomalo e originale per la sua produzione e rendendolo oscuro, criptico e contorto come il resto della sua cinematografia.
Il che andava benissimo, quando era limitato al sipario rosso e al pavimento a spina di pesce della Loggia Nera, ma che diventa un registro estremamente pesante e angosciante se protratto per i lunghi, interminabili minuti di visioni assurde e di situazioni che sfidano anche la più allenata capacità di comprensione e sopportazione.
Ma anche questo registro oscuro potrebbe sposarsi bene ai nostri tempi poco propensi alla spensieratezza. Ma l’ironia, la leggerezza e insieme l’estrema, lancinante malinconia del primo Twin Peaks, quella sensazione di stare assistendo a qualcosa di unico nel suo genere e allo stesso tempo estremamente elementare nel suo raccontare storie anche banali e comiche…quell’aspetto viene assolutamente accantonato (ve ne parliamo qui), e sommando a questa nuova stagione le altre voci che compongono l’universo di Twin Peaks (il libro di Frost e Lynch e Fuoco cammina con me), il risultato è un affresco che non si avvale più delle mille sfumature che le prime stagioni concorrevano a portare, ma diventa un quadro composto solo da colori scuri, inquietanti.
La realtà però non è così, non è fatta di assoluti, e così anche la realtà di Twin Peaks; la cui sfumatura malinconica e grottescamente ironica viene soffocata da un prodotto che si impone per la sua estrema serietà ma che allo stesso tempo non concede nulla in termini di scorrevolezza, di empatia, dello “stare dentro” alla storia.
Un aspetto a prima vista secondario ma che è centrale per capire lo snaturamento che Lynch opera in questa nuova stagione di Twin Peaks è la rivelazione dell’identità di Diane, la misteriosa confidente di Cooper, la presenza impalpabile e muta al di là del suo registratore. C’era davvero bisogno di dare un volto e un’identità al personaggio che più di tutti (pur non esistendo) incarnava il mistero, il non detto, l’inconsistenza della realtà? C’era bisogno di rendere tangibile l’inconscio di Cooper? Rendere concreta e reale Diane ha inferto il colpo di grazia alla permanenza del mistero e della poesia delle precedenti stagioni, che questo non-personaggio incarnava alla perfezione.
Non cadiamo però nell’errore di considerare questa nuova stagione un “tradimento” di Lynch alla sua stessa creatura: molte cose potrebbero trovare una spiegazione (una su tutte, l’origine di BOB), e alcuni elementi stanno tornando a fare capolino tra le pieghe di una storia e di una sequenza di immagini perlopiù estremamente criptiche (la musica è tornata, per quanto sia per la maggior parte terrificante o un puro atto di fanservice, vedi la presenza dei Nine Inch Nails). Resta il rimpianto di aver aspettato 25 anni per rituffarsi nel mondo onirico di Twin Peaks ed essersi trovati invece confinati in un vero e proprio incubo.