“In che anno siamo?”
Forse nel 1991. A essere precisi il 10 giugno 1991 quando, cioè, Twin Peaks si è concluso per la prima volta. Oggi, che forse è l’anno 2017, si rinnovano le stesse sensazioni provate nel momento in cui abbiamo realizzato che il Cooper uscito dalla Loggia Nera, altri non era che il suo doppelganger, posseduto da Bob: sbigottimento, spaesatezza, inadeguatezza, paura. Ventisette anni e qualche mese sarebbero trascorsi da quel preciso istante, ma il tempo sembra essersi fermato e riavvolto su sè stesso. D’altra parte, quando si parla di Twin Peaks – e, per estensione, di David Lynch – il tempo è sempre un concetto estremamente relativo.
Mistero. Sogno. Diversità.
Cercare di ricondurre la complessa poetica Lynchiana soltanto a questi tre elementi rappresenta un’ambizione priva di qualsiasi fondamento, intrisa di superficialità e arroganza. Ma è altrettanto indubbio che gli stessi elementi ricorrano in maniera costante nei lavori del maestro di Missoula. E che la commistione dei suddetti ingredienti sia una delle possibili (infinite!) chiavi per interpretare le sue opere. Twin Peaks, in tal senso, non fa eccezione.
Il mistero pervade la Serie sin dalle primissime battute, fin da quando, cioè, il cadavere di Laura Palmer viene ritrovato sulla spiaggia, avvolto in un lenzuolo; il sogno viene introdotto a partire dal terzo episodio, allorchè il Gigante (col senno di poi il Fireman) appare in sogno a Cooper, rivelandogli l’assassino; la gestione di questi e altri fattori (il tema del doppio, lo stile e il linguaggio adottati…), infine, hanno portato a considerare Twin Peaks una Serie fondamentalmente di rottura.
Il mistero, il sogno e il diverso hanno caratterizzato anche l’intero viaggio intrapreso in questa terza stagione. Quello del viaggio è un altro concetto non utilizzato a caso, specie in relazione a Part 17 e a Part 18. Quanto esso duri, se 18 ore, o forse 27 anni, o addirittura all’infinito, come sembra suggerire Philip Jeffries, spetta soltanto a noi stabilirlo.
Di arcani Twin Peaks: The Return ne è piena. Elencarli sarebbe anche superfluo poichè la maggior parte di essi non trova risoluzione nemmeno nell’atto finale. Basti pensare alla Glass Box. O alla povera Audrey, un personaggio atteso tanto quanto ci hanno lasciato interdette le sue sporadiche e ambigue apparizioni, fino all’ultima scena che la vede coinvolta e che si apre a un numero infinito di speculazioni. Possibile non si sia mai ripresa dal coma?.
Quest’ultima supposizione, peraltro, dimostra quanto il mistero sia strettamente legato all’onirismo in Twin Peaks 3, ancor più che nella Serie originale. A tal proposito è impossibile non pensare al sogno, evocato a più riprese da Gordon Cole. In Part 14, infatti, Gordon confessa ad Albert e Tammy del sogno ricorrente in cui incontra Monica Bellucci, la quale gli rivela:
We are like the dreamer who dreams and then lives inside the dream. But who’s the dreamer?
Diverso è invece ciò a cui abbiamo assistito in questa nuova stagione, dal punto di vista del contenuto in primis. Twin Peaks, intesa come la piccola cittadina dello stato di Washington, non è stata più l’epicentro del male. Non da subito, almeno. Lynch ha esplorato nuove ambientazioni, oltre a una sequela incalcolabile di personaggi, estremizzando ciò che già aveva cominciato a fare con Fuoco Cammina Con Me. Part 8, snodo fondamentale per la Serie e per la serialità, ad esempio, è stata l’occasione per capire quando Bob è arrivato sulla Terra (per la cronaca: in seguito ai test nucleari in New Mexico).
Ma ad essere differenti sono state soprattutto le emozioni provate dallo spettatore. Non più la sensazione di inquietudine e, al tempo stesso, di essere a casa che ha caratterizzato le prime due stagioni. La Serie originale disturbava almeno quanto rassicurava. The Return, che riprende le atmosfere di Eraserhead e Inland Empire (non a caso i film più citati nell’opera), non offre alcun tipo di consolazione. Non più un pollicione d’intesa tra colleghi, nè una torta e un caffè caldo con cui rifocillarsi. E, se ci sono, possiedono il retrogusto amaro dell’incertezza.
Non tutto, però, è cambiato. La Serie continua a ruotare attorno a due personaggi: Dale Cooper e Laura Palmer.
Twin Peaks è sempre stato (anche) uno scontro ideologico tra bene e male. Abbiamo imparato a identificarlo nel dualismo tra Loggia Bianca e Loggia Nera, un dualismo di tipo metafisico. L’incarnazione del male assoluto è Judy, madre di BOB, dei Woodsmen e degli esseri che popolano la Black Lodge, in contrapposizione a Laura, inviata sulla Terra dalla Señorita Dido e dal Fireman (come abbiamo visto nella già citata Part 8).
Compito dell’agente Dale Cooper è quello di salvare Laura Palmer e aiutarla a eliminare Judy. Ancora una volta tutto sembra ricondurre all’ancestrale dicotomia tra bene e male, quindi, eppure guai a banalizzarla. In primis perchè la messa in scena di Lynch è sempre qualcosa di molto lontano dall’ordinario (in questo caso più che mai emerge il diverso). In secondo luogo perchè good e evil sono qui due concetti portati all’estremo, fino a sfociare nella promiscuità più totale (la sola esistenza di Bad Coop ne è palese dimostrazione).
Ad ogni modo in Twin Peaks, come nel mondo, il bene esiste e merita un lieto fine. Il bene esiste in Gordon, Albert e Tammy, così come in Andy, Lucy, Hawk e nello sceriffo Truman. Esiste in Bobby e nel suo percorso di redenzione, off screen, ma non per questo meno toccante. È presente in Janey-E e in Sonny Jim, finalmente ricongiuntisi col “loro” Dougie. Un lieto fine è concreto per tutti i buoni di Twin Peaks, eccezion fatta che per i due deus ex: Dale e Laura.
In tal senso come interpretare l’atto finale?
Capire Lynch può rivelarsi l’operazione più complicata del mondo. Oppure la più semplice. Capirlo significa, prima di tutto, realizzare che ciò che egli propaga attraverso uno script e una telecamera sia un flusso di coscienza. Per questa ragione la sua poetica ha sempre un imprinting estremamente intimo, così come intimo deve essere l’approccio dello spettatore nell’interpretarlo.
Come già accennato, una delle chiavi per interpretare l’opera è la commistione di tre elementi. Il mistero, “Linda e Richard: due piccioni con una fava“; il sogno, concepibile come l’ingresso in un’altra dimensione, quella in cui entra Cooper dopo aver oltrepassato le famose 430 miglia; il diverso, come gli alter ego dei personaggi coinvolti: Cooper è Richard, Diane è Linda e Laura, viva e vegeta, sotto le spoglie di Carrie Page.
In una timeline in cui Laura non è morta per mano di Bob, Cooper non si è mai recato a Twin Peaks e, per questo, potrebbe ancora essere legato a Diane (ragion per cui quest’ultima si cela dietro Linda). Il Cooper/Richard non è quello che abbiamo intravisto nelle 2 ore precedenti, nè quello che abbiamo imparato ad amare nella Serie originale. Ce ne accorgiamo quando, con estrema freddezza, spara alle gambe dei molestatori della tavola calda. Anche Diane/Linda sembra rendersene conto tanto che, durante l’atto sessuale insiste nel tastargli il volto, quasi a voler estrarre con la forza l’uomo che conosceva. Infatti, il mattino dopo, se ne va lasciandogli solamente un biglietto.
Richard, però, non è nemmeno Bad Coop. È semplicemente un uomo svuotato delle sue emozioni il cui unico fine è salvare Laura Palmer. Quando la ritrova nelle vesti di Carrie Page (carrie page suona come “carry page”, ovvero, “pagina da riportare”: sarà mica un riferimento alle pagine del diario strappate?) apparentemente ignara della sua identità in un’altra dimensione, insiste nel riportarla alla sua casa di Twin Peaks. La casa dei Palmer è, però, in realtà abitata da Alice Tremond, la quale l’avrebbe acquistata dal precedente proprietario, tal Chalfont.
Tremond e Chalfont altri non sono che le identità con le quali è conosciuta l’anziana signora che appare, in compagnia del nipote, in alcuni episodi della Serie originale, oltre ad essere uno degli spiriti che popolano la Loggia Nera. Il resto lo fa il montaggio sonoro, che riprende la voce di Sarah Palmer che invoca Laura nell’episodio pilota: Laura/Carrie percepisce il dolore che la giovane liceale ha patito durante la sua vita e lancia un urlo straziante.
È il pessimismo e, contestualmente, l’ottimismo di David Lynch. Anche la dimensione parallela è infestata dalla presenza di Judy e dei suoi spiriti, i quali aleggiano, maligni, intorno a Laura. Al tempo stesso, però, Laura è ancora viva, con Dale al suo fianco, pronti a battersi ancora, ancora e ancora. Una minaccia perpetua contrapposta a una strenua, stoica opposizione, una battaglia destinata a ripetersi in ogni campo dimensionale, in un ciclo potenzialmente infinito. Per questo diventa impossibile rispondere a una domanda relativamente banale:
In che anno siamo?