Il ritorno di Twin Peaks non è come ce lo saremmo aspettato. È assodato a tal punto che questa affermazione ha ormai la stessa valenza del “non ci sono più le mezze stagioni“. Ciò non significa che non si tratti di un concetto condivisibile. Tra le prime due stagioni e questo sequel – definirla terza stagione è decisamente riduttivo – esistono differenze strutturali sia per le logiche di fruizione del prodotto, sia per quanto riguarda la narrazione e lo stile.
In un certo senso il primo aspetto era anche preventivabile. Mentre la Serie Tv originale è stata lanciata dalla Abc – un’emittente generalista che, in quanto tale, si rivolge a un pubblico di massa ed esige il rispetto di precisi canoni – ‘The Return’ è stata la scommessa di Showtime, una rete via cavo che ambisce a un diverso tipo di pubblico. E che, in virtù di questo, ha potuto garantire carta bianca a Lynch e Frost.
Naturalmente l’immaginifico autore di Mulholland Drive non ha sprecato l’opportunità di dare ampio sfogo alla sua creatività. Il che ci porta al secondo aspetto, quello che ha destato le maggiori perplessità in una parte dei fan di Twin Peaks. Questi fanno fatica a riconoscere le atmosfere che hanno reso iconica la Serie, non tollerano l’assenza delle progressioni badalamentiane – specie nel primo blocco di episodi – e le sporadiche comparsate del cast originario.
Poca Twin Peaks, che al momento non è più rilevante delle storyline in Nevada o a Buckhorn, poco Agente Cooper. diviso tra il suo doppelganger malvagio e l’apatico Dougie Jones. Proprio quest’ultimo riesce a dividere apocalittici e integrati più di ogni altra cosa, assurgendo, così, a simbolo delle perplessità legate a Twin Peaks. Il punto è: questa presa di distanze dalla Serie originale è necessariamente un male?
La risposta è no. Non solo, infatti, stiamo ammirando qualcosa di meraviglioso ma lo stesso Dougie dovrebbe diventare il simbolo di tutto quello che di buono c’è nel nuovo Twin Peaks. Cerchiamo di capire perchè, procedendo per gradi.
Come illustrato anche in questo articolo ciò che ha decretato la fine del primo Twin Peaks è stato il braccio di ferro di Lynch con la produzione. La seconda stagione – recentemente definita dal regista “uno schifo totale” – ha risentito in maniera evidente di tali contrasti, a causa di una sfilza di buchi di trama e di storyline inutili e approssimative. Lo stesso Lynch ha abbandonato la stesura degli episodi e la regia, per poi tornare in occasione del suggestivo finale.
Il casus belli nell’occasione va individuato nella decisione della Abc di rivelare l’identità dell’assassino di Laura Palmer. In Twin Peaks i misteri non sono mai mancati, ma quello legato alla morte di Laura trascende la Serie stessa. Il whodunit “Chi ha ucciso Laura Palmer”, espediente tipico dei romanzi gialli, infatti, è stato il motivo per cui milioni di spettatori hanno seguito la Serie Tv originale.
Lynch e Frost, alle prese con tutto un mondo da creare intorno a quello specifico evento, si sono visti privati della loro base e Twin Peaks è crollata come un castello di carte. Paradossale, se vogliamo, come l’Abc abbia ammazzato un prodotto funzionante andando contro i suoi stessi interessi. D’altro canto è lecito aspettarsi che i due autori evitino di commettere nuovamente lo stesso errore.
Il che implica maneggiare con cura estrema la questione Dougie/Cooper.
Non sappiamo cosa abbia in mente Lynch, eppure appare chiaro che il leitmotiv di questa stagione sia legato al “ritorno” dell’agente Cooper. Proprio come la rivelazione dell’assassino di Laura rappresenta il traino della Serie originale. Se abbiamo sperato con tutto il cuore una nuova stagione è soprattutto merito del cliffhanger con cui si è conclusa la seconda.
L’integerrimo Coop impossessato da Bob continua a rappresentare, oggi, sul panorama seriale, uno dei momenti più intensi dal punto di vista emotivo. Twin Peaks affascina in ogni dettaglio, ma ciò che ci preme di più è la restituzione di un personaggio quasi fiabesco per la genuinità e la purezza che è stato capace di trasmettere. Una trepidazione, quella per il suo ritorno, paragonabile soltanto a quella della rivelazione dell’assassino di Laura.
Ecco per quale motivo ha senso rapportare i due momenti. Per quanto ci manchi l’iconico e immortale Dale il suo effettivo ritorno va guadagnato: come già accennato Lynch e Frost non possono commettere gli errori del passato. Tocca, probabilmente, “sopportare” il catatonico Dougie che, al netto della sua apparente apatia, non è un personaggio privo di interesse.
Egli non solo si sta rivelando un comic relief di tutto rispetto, ma è anche legato ad alcune storyline interessantissime, non ultima quella dei fratelli Mitchum. È inoltre incoraggiante immaginarlo in un faccia a faccia con Bad Coop, uno scontro che sublima quello tra le due Logge e che rappresenterebbe la summa di tutta Twin Peaks. E magari solo in quel frangente riavremo ciò che stiamo agognando.
Per lo stesso principio la scelta di ambientare la terza stagione al di fuori di Twin Peaks è da considerarsi legittima.
Non fosse stato per il cliffhanger finale le prime due stagioni della Serie potevano anche bastare per una conclusione. Certo, non avremmo avuto tutte le risposte ma avrebbero trovato la risoluzione le due macrostoryline della Serie: l’identità dell’assassino e Windom Earle. La presa d’atto dell’esistenza del doppelganger di Cooper ha invece aperto un mondo. Era questo, dunque, l’unico elemento in grado di garantire una continuità.
A quel punto Lynch ha deciso, giustamente, di scommettere contro il retaggio di Twin Peaks. L’avrebbe fatto già nella Serie originale, senza le imposizioni della rete, e Fuoco Cammina Con Me ne è la parziale testimonianza. La città di Twin Peaks avrà sempre una parte importante e il trend narrativo delle ultime puntate conferma che gli eventi torneranno a convergere nel misteriosa paesino. Ciò nonostante il male non può e non deve esistere soltanto al di là delle colline.