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La scena meno Twin Peaks di Twin Peaks

Twin Peaks
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Twin Peaks è un viaggio. Lo è prima ancora di essere ogni altra cosa. È un viaggio che racconta altri viaggi. E i viaggi sono storie. Le storie, singole, nella loro aggregazione sono la Storia. Questa cifra narrativa e drammaturgica ci viene dichiarata fin dal principio, perché ogni viaggio che si rispetti comincia da esso. Viaggio, storia e principio sono gli elementi fondanti di Twin Peaks. Sono le basi dell’opera che David Lynch ha donato al mondo nel 1990 e che attraverso un quarto di secolo ci ha portato, nel 2017, a un nuovo confronto con essa.

Ma le fondamenta, per loro natura, sostengono qualcosa. Questo qualcosa in Twin Peaks è il “Male“. Il viaggio che viene percorso attraverso le storie narrate sono il viatico per una delle più profonde e disarmanti visioni del Male che mai siano state rappresentate sul piccolo o grande schermo. Illuminanti a proposito le parole del critico Aldo Grasso:

Sembra quasi un paradosso ma spesso si fa fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm. C’è in giro, ad esempio, un’opera che rappresenti un viaggio metafisico fra i segreti del male più avvincente di Twin Peaks?

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Lo stile narrativo e drammaturgico che fa da cifra a Twin Peaks è una costante discesa verso le profondità più recondite del male. Dalla prima onirica stagione ci troviamo all’interno di un vortice che scende sempre più in basso negli abissi dell’animo umano e ci porta quasi senza farcene accorgere d’innanzi alle sue origini. Lynch per fare questo decide di uscire dal seminato. Si assume il rischio di osare e di spingersi oltre ogni paletto che fino ad allora si era dato, almeno all’interno di questa serie.

Dobbiamo infatti attendere la terza stagione per sprofondare in un episodio distopico anche per lo stile stesso a cui Lynch e Frost ci avevano abituati. Nell’ottava parte del ritorno di Twin PeaksGotta light?” ci troviamo al cospetto della scena che forse più di tutte si discosta dal modello fin qui utilizzato e rappresenta invece in maniera eccellente e sublime lo stile registico cinematografico di Lynch.

Tutto quello che precede la scena verso cui stiamo inesorabilmente viaggiando è un richiamo al  suo cinema. “Strade Perdute” e “Mulholland Drive” più di tutti. L’episodio inizia quasi in modo classico per lo stile di Twin Peaks, con Evil Cooper e Ray in viaggio insieme in una notte inquietante. A un certo punto i due discutono tra loro e Ray spara a Cooper, il cui corpo esanime viene poi circondato da un gruppo di strane creature ombrose. Da qui, dopo una performance dei Nine Inch Nails, si entra nel delirio onirico.

16 luglio 1945, White Sands, Nuovo Messico.

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Senza alcun preavviso, Lynch ci fa assistere all’esplosione di una bomba atomica. La prima Bomba Atomica. “Assistere” è un concetto riduttivo rispetto all’esperienza alla quale ci si sottopone in questa sequenza. David Lynch ci fa letteralmente vivere l’esplosione. La regia insiste con sconcertante inquietudine sul fungo atomico che si alza nel deserto. La camera striscia e si insinua fin dentro le profondità più recondite della nube grigia, e qui rivela il “Male”. Arriviamo a vedere ogni singola particella e interferenza generata dalla nube. Particelle atomiche che schizzano e attraversano lo schermo riempiendo ogni spazio.

In sottofondo le note di Threnody For The Victims Of Hiroshima di Penderecki, canto funebre di violini stridenti già utilizzato da Kubrick nel suo Shining, che sintetizza per simboli uditivi il grido del mondo squarciato e violentato. Se l’orrore ha una musica è questa. Funziona perché, esattamente come in Shining, stabilisce un connotato orrorifico che investe l’ambiente in sé, non solo le persone che lo abitano o i fatti che accadono. È il mondo a essere corrotto e a far marcire tutto ciò che vi abita. E da qui vediamo prendere forma Bob. Il male più grande che l’uomo abbia mai commesso, squarcia definitivamente il velo della realtà e da questo squarcio l’essere senza volto fa uscire Bob.

Un episodio, l’ottavo, in cui il viaggio intrapreso 27 anni prima raggiunge finalmente il suo obiettivo. Ci proietta oltre Twin Peaks fino alle origini del male stesso. Per fare questo Lynch decide di abbandonare (o forse è meglio dire superare) lo stile narrativo adottato fino a quel momento nella serie e mettere la sua intera arte a disposizione di questo focale momento. È un episodio che omaggia il grande cinema. Quello di Lynch, certamente, ma andando anche oltre. Tutta la scena focale che parte da un evento storico – curioso (ma non ci si poteva aspettare di meno) come il fungo atomico fosse il poster appeso alle spalle di Gordon nel suo ufficio – poi non prevede alcun tipo di realisticità rappresentativa. Lynch non si preoccupa di rendere nulla verosimile.

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Le sequenza di scene che vediamo hanno la qualità fantastica dei lungometraggi primordiali. C’è Georges Méliès, c’è tanto cinema sperimentale e videoarte tipico degli anni ’70. C’è soprattutto il tributo a Stanley Kubrick. La telecamera che si spinge nel cuore del fungo atomico fino a scorgere il fascio di “Garmonbozia” dentro cui vediamo il volto di Bob, per arrivare attraverso un miasma di interferenze e crepitii su di un mare nero e mosso. È l’omaggio a 2001: Odissea nello Spazio. Ma c’è di più. Lynch reinterpreta Kubrick. Non lo scimmiotta.

Dichiara come abbiamo visto, o meglio dire, sentito il suo tributo. La stessa colonna sonora di Shining per giocare “a carte scoperte”. Poi quella sequenza sul mare. La telecamera che scorre sopra le acque agitate e nere per giungere fino all’isola con l’edificio tetragono in cui penetrare le radici del tutto. Il parallelo con la sequenza finale del film di Kubrick è maestoso. Anche qui abbiamo l’attraversamento di un metaforico “buco nero“. Un pertugio buio e inesplorato per giungere fino all’interno dell’edificio. Lynch non sente il bisogno di nascondere i suoi riferimenti. Anzi li sottolinea e dichiara la consapevolezza di poterselo permettere.

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Quello che ne segue è altrettanto potente, nella sua consolidata lentezza scenica. Dapprima vediamo la Seniorita Dido in una stanza con una strana campana (la medesima dell’episodio 3) poi  il Gigante della Loggia Nera fa la sua comparsa in una sequenza muta e in bianco nero che richiama alla mente la forza evocativa del cinema espressionista. Lynch ci mette di fronte quindi a tutte le sue ossessioni e passioni cinematografiche in una scena che forse è la più autobiografica di tutta la serie. Forse una delle pagine più belle che il piccolo schermo abbia mai trasmesso.

Nella sequenza in questione rivediamo la bolla con Bob che compare su uno schermo, ma da una luminescenza scaturita dalla testa del Gigante si forma una seconda bolla, dorata, con riflesso il volto sorridente di Laura Palmer. La bolla viene lanciata sullo schermo su cui appare il pianeta Terra e si dirige verso il Maine. La dicotomia Bene e Male si ricompone nel passato, come nel presente.

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Il cinema di Lynch è senza compromessi. Non può essere ricondotto a una serie di categorizzazioni stereotipate. La sua arte risiede nella capacità di provocare e destabilizzare lo spettatore senza rinunciare a piacere. L’opera di Lynch è una provocazione non solo perché complessa sul piano concettuale ma soprattutto perché si pone come obiettivo quello di togliere le fondamenta delle nostre certezze. Mette in discussione concetti fondanti la nostra realtà: come Bene e Male, come Giusto e Sbagliato, come Bello e Brutto. Fa tutto questo mantenendo però una coerenza interna, profonda, granitica e presentando il tutto con una narrativa ed estetica unica. Onirica ed enigmatica. Quello che è chiaro nella mente del suo autore a noi viene portato destrutturato e il contratto che Lynch sigla con il pubblico è:

Io vi prometto di metterci la massima qualità ma voi dovete smettere di essere passivi.

Questa relazione pubblico/autore è rappresentata in modo disarmante da questa scena. Per alcuni irritante all’inverosimile per altri stimolante al limite di divenire ossessione. Lynch non ammette indifferenza. Non garantisce mezze misure. Mai nel piccolo schermo fino ad oggi si era osato tanto. Mai si sarebbe potuto pensare di assistere a un trattato sulle origini del male e una critica all’umanità così disarmante.

Questa è sicuramente la scena meno rappresentativa di tutta Twin Peaks, perché Lynch ha deciso di regalarci un manifesto. Una dichiarazione di intenti e stilistica come mai la televisione aveva avuto prima. In questa scelta però il regista non tradisce lo spirito di Twin Peaks, anzi lo esalta e lo porta alla sua massima espressione artistica.

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