Ritorniamo, ancora una volta, a Twin Peaks. E questa volta parliamo del suo simbolismo.
Twin Peaks e simbolismo. Fermiamoci un momento per assaporare passione e confusione e il profumo dei Douglas Firs sospinto dal vento. Potete anche concedervi un po’ di cherry pie o qualche minuto di meditazione a testa in giù se richiedete (prendervi la testa fra le mani e ridere istericamente sono scelte altrettanto valide).
Esilarante, imprevedibile, dozzinale, terrificante, grottesca, amabile. Twin Peaks si presenta come una sorta di paradosso assoluto, confezionato in 30 episodi. Spesso genericamente descritta come un gran “pastiche” di generi che vanno dal noir al fantascientifico alla soap opera, Twin Peaks ci presenta talmente tanto da risultare spesso assolutamente inspiegabile, irragionevole, votata a confonderci, a resistere una trama centrale.
Tutto ciò sembra frustrante. A tratti certamente lo è. Ma sa anche essere assolutamente irresistibile.
Twin Peaks è una serie da approcciare un po’ come se fosse un’opera d’arte: a volte bisogna semplicemente abbandonarsi all’intuizione, all’impalpabile e indefinibile sensazione.
La madre della Serie come la intendiamo oggi non ha esattamente la linearità (per quanto a volte artefatta) delle sue figlie. In Twin Peaks a volte puro intento comunicativo e semplice improvvisazione sembrano confondersi.
A ciò si somma l’estetica surrealista. Il trionfo dell’irrazionalità come sovrarazionale. Dialettiche di superfici, consistenze, sensi, sempre o quasi ingannevoli.
Analizzare il simbolismo di Twin Peaks è un’operazione che non potrà mai definirsi esaustiva, e che non dovrebbe neanche esserlo.
Twin Peaks è concepita per essere esattamente un invito al sogno. Parlando dell’esperienza televisiva, Lynch dice di apprezzare il rapporto fra accessibilità e intimità dato dalla televisione: “Le persone sono nelle loro case e nessuno le disturba. Sono ben posizionate per entrare in un sogno”.
E da efficace espressione dell’onirico qual è, in Twin Peaks non solo il sogno è un momento essenziale, ma Twin Peaks stessa è un tripudio di simboli. Dissezionare la Serie per estrapolarli tutti rischia di lasciarci con un macello di dettagli sconnessi, di supposizioni, di vasetti e di targhette. Noi qui vi diamo qualche consiglio per forse vedere o rivedere la Serie con un occhio leggermente diverso, ma l’invito è quello di lasciarvi anche un po’ trasportare. Di inseguire il fascino primordiale del simbolo senza doverlo razionalizzare, senza inscatolarlo, senza sopprimerlo.
Dopotutto, Twin Peaks è proprio votata all’assaporare l’irrazionalità , l’intuizione, la trascendenza, non come alternative, non come irrealtà , come negazioni, ma come complementi immanenti della contingenza e del razionale.
In Twin Peaks il mito, il magico è la matrice e il destino della ragione.
L’agente speciale Dale Cooper è protagonista e simbolo principe della necessità di questo approccio, di questo superamento del divario artificioso fra naturale e soprannaturale, fra realtà empirica e onirica, fra deduzione e intuizione.
Tradizionalmente, il detective è la figura che impone la razionalità sul caos indotto dalla devianza sociale costituita dal crimine. Di fronte all’orrore dell’incomprensibilità della morte, di fronte al mistero, il detective pone il Logos, il principio sommo dell’ordine. Il male indefinibile riceve un volto, un nome e una punizione. E la catarsi sociale è completa.
Non con Dale Cooper. Nient’affatto.
Ponendo il suo protagonista come uno straniero, Twin Peaks invita a una solidarietà che sfocia in identificazione fra Cooper e lo spettatore. Come Cooper, lo spettatore riceve immagini, simboli spesso essenziali alla comprensione degli eventi della Serie, e ai quali necessariamente viene donata un’interpretazione. Per lo spettatore Twin Peaks è essa stessa il sogno che chiede di essere letto, interpretato, decodificato. Ma come per Cooper, il meccanismo è molto meno rigido di quello abitudinario.
Contro la purezza razionalista, la metodologia di Cooper si basa largamente sulla sua antitesi: sul sogno, sull’inconscio, sul simbolo privo di referente immediato, sull’intuizione.
E nel mondo di Twin Peaks la ragione è spesso spaventosamente impotente.
Il fondamento del male trascende l’umano, supera la razionalità e getta le sue radici nell’espressione somma della narrazione primordiale: il mito. In questo caso, quello della Loggia Bianca e della Loggia Nera, il mito dei due massimi archetipi, che inesorabilmente confluiscono e si contengono: l’uno non è che un luogo di passaggio per l’altro.
Ma anche se il mistero iniziale, quello concernente l’identità dell’assassino di Laura Palmer, viene risolto, il lavoro del detective non è terminato: non è stata raggiunta alcuna catarsi. Anzi, è solo l’inizio dello sprofondamento dei personaggi e della cittadina stessa nelle acque turbinanti della perdizione, del caos, dell’incapacità di ricostituire una superficie solida. Come le possenti cascate che vengono riprese sempre più spesso con il procedere della Serie, gli eventi precipitano, le maschere crollano, ma la superficie, l’ordine, resta inaffidabile, illusorio, lacerato da una pozza.
La tranquillità apparente della natura cela il teatro del male.
E Cooper, lo sciamano, colui in grado di camminare “fra due mondi”, il nostro eroe, resta intrappolato fra quelle stanze diverse eppure uguali, circondato da tende rosse.