La condizione in cui una posizione elitaria è tendenzialmente esente da responsabilità, è quella in cui nessuno ha chiesto di essere in tale posizione, o che, per meglio dire, non ha agito pretenziosamente per trovarvici.
E’ il caso di Twin Peaks ed il suo proverbiale ruolo di pioniere del proprio genere; ruolo che gli si è intagliato addosso con una naturalezza che è tipica di un riscontro quasi profetico, inevitabile.
Questo non perché la ricetta vede Il Maestro (David Lynch) in azione, Angelo Badalamenti alla composizione delle trascendentali colonne sonore che accompagneranno le cupe atmosfere, un Ray Wise intramontabile ed un sano, schematico, accomodante ma al contempo intrigante incipit mistery. No, od almeno non solo. Questo perché Twin Peaks è l’opera (una delle poche) in cui Lynch ha deciso di tramandare (con l’aiuto di Mark Frost) il suo sapere iperuranico in maniera snaturata per definizione e reso accessibile, dando al mondo le giuste direttive future su come portare un qualunque sistema misantrope ad innamorarsi di un qualsiasi personaggio animato (e non solo animato, asserirebbe la Sig.ra Ceppo).
Riuscite a vedere quel pallino nero, sopra le vostre teste? No, è chiaro. Tenete a mente questo interrogativo.
E’ quindi con un metodo più diretto nei mezzi, indi più caduco, più comune, raccontando con elementi più terrigeni del solito (una metaforica cittadina dalle abitudini serafiche e le atmosfere celestiali, personaggi caratterizzati in maniera talvolta caricaturale e sempre originali, immagini ricorrenti e tormentoni indimenticabili) che Lynch ci presenta le vicissitudini di un conflitto ancestrale ed appunto soprasensibile: quello tra bene e male.
“Jacob ed il fumo nero”, “Ashla ed il Lato Oscuro della Forza” e… “Loggia Bianca e Loggia Nera”.
Sono innumerevoli le metafore che presentano il più classico dei dualismi nella storia del cinema e della televisione, ma per quanto suoni come nota di lode forzata, ci troviamo nel 1990 quando Lynch e Frost decidono di sconvolgere il modo di fare televisione (e non cinema, solo perché a quello Lynch ci ha già pensato nel 1977), quando alcuni spunti e meccaniche non erano ancora mescolabili in quanto inedite nella loro alchimia, pertanto impensate.
La stessa alchimia che in Twin Peaks si impegna a fondere i caratteri contrastanti dominanti, anziché presentarli, scinderli e porli in “Logge” distinte fino al momento del chiaro e definitivo confronto, come spesso accade.
Qui, bene e male appaiono come due volti diversi di una stessa forza motrice. Una coesistenza essenziale tanto quanto la dipendenza dell’agente Cooper da “una buona tazza di caffè nero come il buio di una notte senza luna”.
Una volta entrati a Twin Peaks, siamo già pronti a vivere il dualismo in maniera omogenea in ogni singolo elemento. A partire dallo stesso paesino.
Lo stesso Dale Cooper, agente dell’FBI incaricato di risolvere l’inusuale enigma sviluppatosi nella tranquilla cittadina, è fuorviato dall’aspetto evocativo e rassicurante del posto. Un paradiso terrestre che è sede di una interconnessione tra mondo manifesto e mondo sensibile.
Dualismo intriso; il bene che contiene il male, e non opposizioni avulse l’una all’altra.
Non è facile destituire dalla propria percezione l’idea che Lynch e Frost ci propongono e che è chiave di lettura dell’opera: il male suona un motivetto trascinante, muove un ballo incalzante, segue ragioni ammalianti, ed il bene ne viene attratto. Tant’è che coesistono e convivono. E bene anche.
Dello stesso dualismo intriso sono “vittima” i protagonisti: a partire dalla ragazza modello (Laura Palmer), adorata dall’intera cittadina, amata dalle amiche ed agognata dagli uomini, il cui lato compromesso della personalità viene lasciato trasparire ad ogni petalo di mistero strappato, facendo nient’altro che generare altri misteri. Da qui, la “figlia putativa” di una città limpida quanto la sua reputazione, finisce per rivelarsi specchio della vera natura della cittadina stessa; per continuare, nello stesso Leiland Palmer, il bene ed il male inglobati sono rappresentati dalla possessione di quest’ultimo da Bob, rappresentazione del male ontologico; per finire, in senso metaforico, l’attribuzione non casuale dei nomi “Mike (One-armed man) e Bob”/”Mike e Bobby”, questi ultimi inizialmente sono appunto i sospettati dell’omicidio di Laura Palmer.
Il caso di una giovane ragazza assassinata, dunque, funge da catalizzatore di una coscienza superiore alla quale, assieme al poco convenzionale ma infallibile Dale Cooper, lo spettatore cerca di arrivare con elementi evanescenti ma di natura umana, quali le immagini oniriche dello stesso agente.
E’ esattamente qui, dal terzo episodio della stagione di esordio, che col sogno di Cooper ci viene rivelato ogni intento “meta-telefilmico”: abbiamo amato la poliedricità di Laura Palmer, il suo carisma da viva (E non!), i “suoi segreti”, perfino il suo carnefice. Ma a quel punto il caso diventa nient’altro che l’intrigo, la forza motrice. L’elemento scatenante si presenta come qualcosa di intangibile e non sradicabile. Dale viene a conoscenza, nel suo sogno, dell’assassino di Laura. Ma come spesso accade al risveglio, il dettaglio più importante è svanito nel subconscio.
“Il mio sogno è un codice che dev’essere decifrato. Decifrato il sogno, risolto il caso.”
E’ tutto molto semplice: la risposta è già lì, basta ritrovarla accuratamente con gli indizi a carico. Ciò che non è semplice è appunto la causa scatenante: ci ritroviamo al dualismo intriso di bene e male, alla rappresentazione ultima: “Loggia Bianca” e “Loggia Nera” come istanze ultraterrene.
Quali voli pindarici il nostro protagonista, del tutto umano e propriamente “terreno”, dovrà fare per giungere ad una verità imperscrutabile? Lanciare sassi contro bottiglie di vetro nella speranza di trovare risposte in guide celesti, ad esempio.
Non che questo screditi o tolga credibilità all’operato dell’agente Cooper. No, nonostante la goliardia che fa da padrone nella maggior parte delle sue induzioni e deduzioni, mai lo spettatore ha il dubbio che ciò che sta vedendo sia un uomo che brancola nel buio non sapendo dove andare. Come già detto, la risposta è già presente nel substrato, tutto sta nel ritrovarla. Come cerca di riuscirci, beh, quella è pratica lecitamente particolarizzata ed assoggettata (“La mente è mia e la stimolo con tutte le bottiglie che voglio”, per dirla alla Lynch)!
Allo stesso modo, tutto l’universo di Twin Peaks affronta problemi che sembrano sotterrati nel passato, cose che possono sembrare di piccolo conto ma che prepotentemente risalgono a galla proprio per lo scarso “peso” che gli si viene dato e che quindi non li ancora a fondo. Ogni cittadino di Twin Peaks è colpevole, come del resto ognuno di noi per qualcosa, nel suo immaginario.
Ma i loro segreti sono concatenati, le loro realtà spaventosamente vicine nella loro scabrosità, e le loro coscienze da un certo momento in poi tacitamente consapevoli dell’esistenza e presenza di un ineffabile male a presidiarli:
“C’è una specie di malattia nell’aria. Qualcosa di molto, molto strano tra questi vecchi boschi. Puoi chiamarla come vuoi. Una maledizione. Una presenza.”
Così, parallelamente all’insidiarsi inesorabile e progressivo dello splendido tratto distintivo e stile “onirico e simbolico” di Lynch, sembriamo infiltrarci in un inception di quesiti: “Chi ha ucciso Laura Palmer?” ed, all’interno di questo, “Come, in che forma e sostanza, dove e perché esiste CIO’ che ha ucciso Laura Palmer?”. Non è più importante il movente. Siamo già catapultati in una realtà sospesa il cui fine è metafisico e privo di ragioni materiali.
E’ all’interno dell’enigma testuale (ciò che stiamo vedendo, ossia un caso di omicidio efferato) che troviamo la necessità di interrogarci sull’esistenziale (qual è la natura di Bob?).
Twin Peaks è, per l’appunto, la “Loggia” in cui l’individuo stanzia per porsi quesiti su tematiche inintelligibili.
L’istanza psichica aggiunta all’Es nella sfida rapsodica contro il Super-Io. Il mezzo per dare una spiegazione appercettiva a ciò che la convenzione non sa o può spiegare.
Twin Peaks è la ragione per cui Twin Peaks stessa è nata.
Una monade da cui partire per giungere quanto più vicino all’universale si possa giungere con le proprie idee particolari di bene e male.
“Certe idee si presentano come sogni. Posso ripeterlo: certe idee si presentano come sogni.”, direbbe ancora la Sig.ra Ceppo.
Di confortanti climi da Double R, in antitesi a sensazioni prevaricatrici da Roadhouse, di calde torte alla ciliegia con tazze di caffé nero pece, di una nemesi “umana” che gode di ogni tratto degno di nota delle migliori trame dei nostri tempi quale “Windom Earle”, di come un addetto alle luci di set possa inavvertitamente diventare uno dei personaggi più piacevolmente inquietanti della storia della tv nel ruolo di Bob, di una ermetica ed ipnotica Audrey Horne; di questo e di almeno altre centinaia di spunti vorrei parlare quando penso a Twin Peaks, ma mi rendo conto che tutto ciò non sarebbe come viverli da spettatore. Twin Peaks è una mitologia, della quale vanno incarnate le abitudini di ogni personaggio, le sfaccettature caratterizzanti e le leggi dominanti, buone e malvagie.
Ed ora torniamo all’interrogativo di inizio scrittura.
Twin Peaks è tutto questo. Twin Peaks è quel puntino nero sul soffitto, che inchiodiamo con lo sguardo mentre siamo a letto. Quel puntino nero che, per quanto ai limiti del percettibile, si fa prepotentemente breccia nell’immenso bianco che lo circonda e nel quale, per istinto, siamo curiosi di finire ed essere tentati nel momento del dormiveglia, pronti ad assistere al groppo in gola che l’ignoto sa generare più del drammatico. Pronti ad assistere al nano che danza dinanzi ai nostri occhi.
Lynch non mente. No, letteralmente, nemmeno quando da mediatori sono i suoi personaggi: “Ci rivedremo ancora, tra 25 anni.”
Siete avvisati: se come i buoni vecchi cittadini di Twin Peaks durante la notte della reginetta, ed ogni fan che si rispetti in questo periodo, cominciate a sentire un leggero tremore alle mani, non temete. Sono i pianeti che si riallineano purché la Loggia si riapra.
Twin Peaks sta tornando, pur non essendo mai andato via.