Una città, Napoli, un palazzo, quasi seimila episodi e innumerevoli vite che si intrecciano e si dividono per poi incontrarsi nuovamente. Un posto al sole: un titolo che tutti conoscono, una soap opera che in pochi ammettono di aver amato o di amare.
Perché sì, possiamo dirlo, per qualcuno è un po’ imbarazzante ammettere che ci sia stato – o che forse ci sia ancora – un tempo in cui alla sera il nostro televisore era sintonizzato su Rai 3 per seguire le vicende di Palazzo Palladini. Soprattutto per noi, gli appassionati del mondo seriale, abituati alle grandi produzioni Netflix e Amazon Prime che ormai più che televisione sono cinema. Noi, che da bravi critici in erba a queste stesse produzioni diamo spietati giudizi riguardo la fotografia o magari il montaggio. Noi, educati da Boris a prenderci gioco delle serie fatte “a ca**o di cane” oggi stentiamo ad ammettere che talvolta abbiamo guardato Un posto al sole senza vederne i difetti, con leggerezza, se non addirittura con trasporto. E anche se riusciamo ad ammettere questo lo facciamo avvertendo lo stesso imbarazzo che proveremmo nel riguardare i nostri capelli nella foto di classe della seconda media.
Ma in fondo perché imbarazzarsi, perché questa forma di pudore nell’ammettere che questa soap opera ha un posto nel nostro cuore? Cosa c’è di sbagliato? Assolutamente nulla.
Innanzi tutto è bene ricordarci che abbiamo un debito nei confronti di Un posto al sole. Quando da bambini, magari sul televisore della cucina, guardavamo con mamme e nonne Un posto al sole, non è stata forse quello un primo passo nel mondo della serialità televisiva?
La fedeltà che da 25 anni porta inderogabilmente una media di 2 milioni di telespettatori da tutta Italia davanti al televisore alle 20 e 45 non è forse la stessa che ci da la forza di aspettare quasi 3 anni per la sesta stagione di Peaky Blinders? Io credo sì.
È senz’altro vero che oggi il nostro occhio è molto più abituato di una volta a produzioni di grande spessore, di grande qualità, e ovviamente di questo non possiamo che essere contenti. Sono prodotti che danno moltissimo in termini di credibilità, di emozioni e di pathos, ma che chiedono anche tanto in cambio: tanta attenzione, tanto tempo, soprattutto tanta continuità. Sono serie magnifiche ma che non ammettono distrazioni, esigono di essere guardate nella loro interezza, non soltanto per essere pienamente apprezzate ma proprio per poter essere comprese. E noi questo lo accettiamo, lo rispettiamo persino. È un prezzo che siamo disposti a pagare.
Eppure come non trovare sollievo nella leggerezza che può darci in questo senso una soap come quella targata Rai 3?
Un posto al sole è comprensiva. Con lei siamo liberi dall’ansia del recupero delle puntate, cosa che tra l’altro sarebbe materialmente infattibile. Possiamo lasciarla, per mesi, anni anche. Ma se decidiamo di riprenderla quando lo faremo sentiremo di conoscerla ancora. Come quella vecchia amica che rincontri dopo anni e nonostante ciò hai l’impressione che il tempo non sia mai passato. Con questa fiction è così. Certo, nel frattempo si saranno sviluppate nuove storie, nuovi intrecci, ma ci sarà sempre quel qualcosa che ricordiamo che ci permetterà di tornare nel mondo di Palazzo Palladini senza sentirci fuori posto.
Un posto al sole è autonoma, e per questo rassicurante. Le sue vicende scorrono parallele alla nostra vita. Se la guardiamo in un giorno di dicembre potremo fare l’albero di Natale mentre Silvia mette le decorazioni nel Bar Vulcano. In una serata di luglio mentre ci togliamo la sabbia dai piedi potremo vedere Nico tornare dalla spiaggia.
Inoltre non dimentichiamo che c’è una componente che potremmo definire di “appartenenza nazionale” che ci fa voler bene a questa fiction: Un posto al Sole è un inno all’italianità, al nazional popolare nella sua accezione più bella. È un omaggio all’Italia reale soprattutto nella scelta dei personaggi, attraverso i quali viene rappresentata quasi ogni categorica sociale e professionale: il commercialista brontolone, la barista segretamente tormentata, il goffo ma simpatico vigile urbano, l’ex galeotto redento, lo spietato dirigente d’azienda…
Questa soap è riuscita a creare un contesto nel quale più o meno tutti possano sentirsi un po’ a casa, possano riconoscersi, e lo ha fatto mettendo al centro delle sue vicende ciò che praticamente tutta Italia vive quotidianamente: un palazzo. È sostanzialmente una storia di vicinato. E chi è che non ha dei vicini?
Viene creato un perfetto equilibrio tra realismo e fantasia, tra ambientazioni e personaggi credibili che si muovono in storie invece un po’ più improbabili.
Quindi sì, senz’altro oggi grazie alle piattaforme di streaming abbiamo a disposizione un catalogo sterminato di serie tv e film di altissimo livello, tuttavia Un posto al sole continua a rispondere a un bisogno che questi altri pur ottimi prodotti non soddisfano: l’esigenza di una visione poco impegnativa, meno pressante, meno seria. L’esigenza di poter non essere sempre sul pezzo, di poter non essere in pari senza per questo venire lasciati indietro.
Forse non guarderemo mai più Un posto al sole, forse rimarrà un parentesi del passato. Poco tempo, nuove serie ogni settimana, uscite imperdibili su ogni piattaforma. Ma non importa, questa fiction rimarrà sempre in un angolino del nostro cuore. Un angolino nascosto, polveroso, che nessun altra serie vuole occupare. Un angolino dove rifugiarci quando saremo stanchi, quando vorremo essere leggeri o quando non avremo voglia di darci un tono, di sentirci intelligenti o arguti. Un posto al sole sarà lì, in quell’angolo segreto del nostro cuore.