ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste incappare in spoiler su Una famiglia quasi normale.
En helt vanlig familj, titolo originale, è una miniserie composta da sei puntate rilasciata su Netflix il 24 novembre scorso. Sei episodi, per una durata complessiva di quattro ore e mezza, durante i quali viene raccontata la storia di una famiglia “quasi normale”. Un padre, pastore di una chiesa protestante, una madre avvocata e una figlia che dovrebbe studiare, o almeno così vorrebbero i genitori, ma che in realtà lavora come barista in un caffè alla moda nel centro di una cittadina piuttosto piccola.
I Sandell conducono la loro vita come una qualsiasi altra famiglia. Senonché Stella, la figlia, interpretata da Alexandra Karlsson Tyrefors (qui alla sua prima esperienza davanti a una telecamera) viene arrestata con l’accusa di omicidio. Secondo la polizia avrebbe ucciso Chris, il suo ragazzo, interpretato da Christian Fandango Sundgren.
Padre e madre rimangono sconvolti da questa vicenda e cominciano a dubitare di se stessi e del loro ruolo di genitori. Soprattutto in riferimento a un episodio del passato quando Stella venne violentata da un suo allenatore durante un ritiro. In quell’occasione la madre avvocata convinse Stella e il padre a non sporgere denuncia. L’avvocata, infatti, dall’alto della sua esperienza lavorativa, sa bene quanto sia duro l’iter per chi sporge denuncia: un vero dramma nel quale quasi sempre la vittima e il suo comportamento vengono messi sotto accusa e il colpevole, troppo spesso, riesce a farla franca.
Una famiglia quasi normale è un adattamento televisivo curato da Hans Jörnlind e Anna Platt sull’omonimo libro di Mattias Edvardsson. La regia è stata affidata a Per Hanefjord, già conosciuto per Elkland, Omicidi tra i fiordi – Il bambino segreto e Rig 45, il quale si è detto molto emozionato a dirigere una storia che “solleva questioni complesse affrontandole attraverso personaggi molto ben caratterizzati e profondi, il tutto condito da una notevole suspense che ti lascia col fiato sospeso fino all’ultimo minuto”.
Attraverso salti temporali, infatti, ogni episodio è come un tassello di un puzzle intricato, nel quale ogni personaggio e ogni azione compiuta contribuiscono a formare un quadro generale che si svela solo nell’ultima puntata. La capacità degli sceneggiatori svedesi di intrecciare le diverse storie personali in un unico filo narrativo è straordinaria perché capace di tenere costantemente alta l’attenzione dello spettatore.
Così, dalla violenza sessuale dell’inizio all’assoluzione del tribunale della fine, attraverso una forte caratterizzazione dei personaggi, ognuno con i propri segreti, lo spettatore riesce a sentirsi parte integrante di questa famiglia quasi normale. Ogni momento di suspense, ogni momento di rivelazione, oltre a rendere le vicende dei protagonisti sempre più coinvolgenti fanno sì che si crei una connessione emotiva con lo spettatore che rimane coinvolto dagli eventi. L’incertezza narrativa diventa quella della pubblico che non sa da che parte schierarsi e che alla fine, svelato l’arcano, è costretto a prendere posizione: o da una parte o dall’altra, senza vie di mezzo. Condanna o assoluzione, giusto o sbagliato, senz’altre sfumature: o bianco o nero.
Il successo del crime/thriller svedese però non deve sorprendere. Alla base di questa esplosione c’è una componente letteraria davvero molto, molto importante che risale addirittura agli anni Sessanta. Maj Sjöwall (1935-2020) e il suo compagno Per Wahlöö (1926-1975) sono considerati gli inventori del genere ben rappresentato dal loro iconico personaggio: Martin Beck. Le avventure dell’investigatore della polizia svedese sono protagoniste di dieci romanzi trasposti per il cinema negli anni Settanta e Ottanta e per la televisione a partire dal 1997 a oggi, con nove stagioni (in Italia sono state trasmesse soltanto la terza e la quarta su Fox Crime).
Sulla scia del duo Sjöwall-Wahlöö arriva Henning Mankell (1948-2015) il quale ha creato il personaggio del commissario Kurt Wallander. Al commissario sono state dedicate diverse serie tra le quali ne ricordiamo tre: la prima composta da tre stagioni andata in onda tra il 2005 e il 2013 (in Italia sono state trasmesse soltanto le prime due); la seconda composta da quattro stagioni con Kenneth Branagh nei panni del protagonista; e la terza, su Netflix, intitolata Il giovane Wallander, due stagioni uscite rispettivamente nel 2020 e nel 2022.
Poi venne Stieg Larsson (1954-2004) con la sua trilogia Milleniun trasposta cinematograficamente, seguito da Camilla Läckberg e Håkan Nesser i cui personaggi letterali sono stati trasposti sia per il cinema che per la televisione.
Tutti questi autori (ai quali si potrebbero aggiungere Jo Nesbø e Hanne Holt, norvegesi, Arnaldur Indridason, islandese, e Peter Høeg, danese) hanno in comune una concezione del crime/thriller che deve servire a smuovere le coscienze dei lettori e non limitarsi a raccontare una storia poliziesca. Così, oltre a una dettagliata descrizione dell’ambiente in modo che il lettore vi si ritrovi immerso immediatamente, vengono presi in considerazione elementi socio-politici importanti come il razzismo, la violenza sulle donne, il traffico di esseri umani, la pedofilia ma anche un’attenzione particolare all’ambiente e al climate change. Argomenti impegnativi, turbanti, che non risparmiano nessuno.
Anche Una famiglia quasi normale è tratta da un libro, lo abbiamo detto qualche riga più in su. A differenza degli autori citati precedentemente Mattias Edvardsson è ancora agli inizi della sua carriera di romanziere. Cosa gli riserva il futuro? Non ci è dato saperlo ma quel che è certo, per ora, è che la serie tratta dal suo libro sta dominando le classifiche di Netflix. Partita in sordina, senza particolari battage pubblicitari, En helt vanlig familj ha saputo conquistare una fetta importante di pubblico che l’ha apprezzata nonostante l’assenza di particolari colpi di scena e una scrittura piuttosto semplice e lineare. O forse proprio per questo? Le serie svedesi hanno alcune caratteristiche molto particolari che le distinguono, per esempio, da quelle americane o inglesi. Punti di forza per quegli spettatori che cercano qualcosa di diverso da vedere in televisione. Caratteristiche che Una famiglia quasi normale non manca di avere.
Oltre ad avere dei background copiosi che li definiscono quasi sempre in maniera meravigliosamente imperfetta i personaggi delle serie svedesi sono per lo più persone comuni. Sia dal punto di vista lavorativo, sia dal punto di vista estetico. Niente CEO di qualche super azienda, niente palestrati. Niente chirurghi plastici con fatturati da milioni di dollari, niente top model. In Una famiglia quasi normale abbiamo un pastore e un’avvocata. Il primo con i suoi problemi di fede, la seconda con un amante e collega. Entrambi con i loro difetti fisici oltre che morali. Entrambi colpiti dall’accusa di omicidio e disposti a fare letteralmente di tutto per difendere la propria figlia.
Un’altra peculiarità tipica delle serie svedesi è la presenza di una popolazione variegata, ben integrata. La mancanza, cioè, di stereotipie e pregiudizi verso lo straniero che non è, per forza, il cattivo (o il buono) di turno. Amina, la migliore amica di Stella, è figlia di una coppia mista ed è una ragazza d’oro, tutta casa, studio e volontariato, tanto che la madre di Stella vorrebbe fare cambio, dice scherzando con un pizzico di invidia.
Le donne poi sono molto spesso al comando e ottengono senza eccessiva fatica risultati degni di nota. In Una famiglia quasi normale oltre a Stella, sua madre e Amina abbiamo una giudice, una procuratrice, una psicologa e un’altra pastora. Tutte molto ben descritte, ben sistemate all’interno della storia, ciascuna funzionale al suo duplice ruolo: quello di personaggio e quello legato alla storia di Stella.
Un altro elemento caratterizzante dei crime/thriller svedesi sono le ambientazioni e la fotografia. Le immagini sono curate nei minimi dettagli per cercare di ricreare le fitte descrizioni che ci sono nei libri. Le atmosfere suggestive contribuiscono così a immergere lo spettatore nell’universo noir e intrigante della storia. Le ambientazioni nordiche sono così lontane da quelle americane o nostrane e i paesaggi freddi e molto spesso innevati si intrecciano perfettamente con la trama avvincente dando al pubblico quasi un senso agorafobico.
In Una famiglia quasi normale manca la neve ma per il resto le scene notturne regalano alla platea un’angoscia sottile, quasi impalpabile. Al tempo stesso la maniera asciutta di rappresentare una realtà quotidiana permette alla miniserie di non enfatizzarsi mai restando intimamente raccolta nell’esporre un dramma terribile che in altre rappresentazioni (e culture) sarebbe magari urlato e pianto allo sfinimento.
Al di là del finale, della soluzione del giallo tout court, la miniserie svedese si concentra su altro. Perché in fin dei conti non è importante che Stella sia colpevole o meno. Ciò che importa davvero è il non detto, quel silenzio che nasconde, che copre, che cerca di porsi come rimedio insieme al passare del tempo. In questo non detto che riguarda tutti i personaggi c’è la mancanza di fiducia e l’incertezza di un padre e una madre convinti che la figlia sia colpevole perché le prove sono a suo sfavore. Eppure impossibilitati ad accettarlo poiché minerebbe il loro stesso ruolo di genitori sul quale hanno costruito gran parte della loro vita.
Una famiglia quasi normale è una complessa rappresentazione dei legami semplici, quasi scontati, che ci possono essere tra le persone. Legami parentali e di amicizia. I primi ci capitano, i secondi ce li scegliamo. Non è un caso quindi che sia proprio Amina, l’amica del cuore, a squarciare il velo di ipocrita omertà sulla violenza subita da Stella tanti anni prima. Amina ha la forza di dire che la verità è dolorosa, una ferita aperta che non si è mai realmente rimarginata. E che il silenzio non è la cura adatta a soprassare un trauma che pesa, in maniera differente, sulle coscienze di tutti i protagonisti.
Il finale di Una famiglia quasi normale non rimette a posto le cose. Non c’è un lieto fine, un e vissero tutti felici e contenti. Anche questa è una caratteristica dei crime/thriller svedesi che risultano crudi e indigesti ma incredibilmente realistici. Nel nostro caso in particolare le conseguenze di tutta la storia sono tali da pesare come macigni e forse solo un radicale cambiamento potrebbe dare un’apparenza di rinascita.
Sentimenti forti che in serie non svedesi raramente si toccano. Manca totalmente un filtro che faccia respirare chi guarda. Il contatto con la realtà di Stella va oltre l’empatia e fa stare male. Ed è forse proprio questa dolenza che fa sì che i crime/thriller svedesi piacciano così tanto. Perché in un certo qual modo ci raccontano qualcosa che leggiamo sui giornali quotidianamente ma che, fortunatamente, non riusciamo nemmeno a immaginare.