ATTENZIONE: l’articolo che stai per leggere contiene spoiler su Unorthodox, la miniserie Netflix ancora disponibile sul catalogo!!
Alcune vite sono delle prigioni: hanno spazi angusti, visuali ridotte, gioie centellinate. La luce filtra solo attraverso gli spioncini ristretti del rassicurante vivere quotidiano. Nessun ghiribizzo, nessuna fantasia, nessuno slancio impetuoso. La finestra che Unorthodox spalanca sul mondo chiuso e cabalistico della comunità ebraico-ortodossa di Williamsburg ci dà la misura di quanto certe esistenze possano rimane bloccate, sospese, ostaggio di una cultura che al posto di schiudere, sbarra e lascia appassire. È un piccolo assaggio di un mondo tradizionalista che la maggior parte di noi neppure conosceva e che invece appartiene a questo secolo, alla nostra modernità. Un boccone amaro, a tratti indigesto. Non riusciamo a precipitarci in quell’universo schivo e geloso delle proprie convinzioni. Non riusciamo a lasciarci andare, sentiamo l’urgenza di mantenere un distacco, di erigere una barriera tra il nostro mondo e quel genere di tristezza che non si manifesta subito, ma metastatizza un poco alla volta. Un inabissamento in quella gattabuia che sono le privazioni grette di certi mondi ci costa fatica, ci provoca disagio, ci lascia agognare la fuga. Esty Shapiro è la giovane protagonista di Unorthodox, una di quelle miniserie che avremmo voluto vedere per più stagioni e che ha fatto la sua comparsa nel 2020 sul catalogo Netflix. Ha il grande respiro delle storie vere e infatti è tratta dal romanzo autobiografico di Deborah Feldman, Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche. La serie è ambientata tra New York, dove si trova una comunità chassidica insediatasi a Williamsburg dopo la Seconda Guerra Mondiale, e Berlino, una città che per gli ebrei ha un’eredità simbolica pesantissima.
Unorthodox è un viaggio, una musica, un grido, una fuga, un canto.
Parte da lontano e sprigiona la sua forza poco alla volta. La serie si concede quattro episodi per raccontarsi e le sono sufficienti per tracciare un percorso che si svolge principalmente nel mondo interiore dei personaggi e di chi guarda. Esty non ha scelto una vita di privazioni, le è capitata. L’ha accarezzata come un guscio morbido che ti protegge dal resto del mondo, ma ci si è di fatto trovata intrappolata senza saperlo. Una gabbia invisibile, senza ora d’aria, un’esistenza che si è trasformata in una cella a cielo aperto, con poche fessure e una sconcertante penuria di futuro. Per Esty la vita è finita prima ancora di iniziare: nella comunità ebraico-ortodossa a diciannove anni ci si sposa. Le donne scelgono la moglie per i propri figli. Una sbirciatina, un piccolo scambio di sguardi e ci si unisce per la vita. Le giovani ragazze della comunità credono che l’inizio della vita matrimoniale coincida con una forma di emancipazione, il passaggio dalla campana di vetro dell’adolescenza alle responsabilità familiari della vita adulta. Invece dopo non c’è niente, finisce tutto. Le donne sono costrette ad abbandonare l’istruzione a diciassette anni. Non possono cantare, ballare, suonare, viaggiare, farsi portavoce di un’opinione. Persino i capelli sono considerati un eccesso di troppo: vanno tagliati e al loro posto ogni donna indossa una parrucca. È la spersonalizzazione totale della donna, la sua disumanizzazione. Unite in matrimonio, le ragazze non fanno altro che procreare, sono involucri utilizzati per “ridar vita a quei sei milioni” morti nei campi di sterminio.
Non esistono deviazioni sui binari arrugginiti di queste vite lasciate a invecchiare.
Qualsiasi scostamento dalla tradizione è considerato un atto sovversivo, corrosivo. Quando il rapporto con la religione si vive in maniera totalizzante, gli individui ne subiscono le conseguenze. Annullare l’io nel rispetto delle osservanze religiose può produrre una visione distorta del mondo che c’è fuori, limitata. È una forma diversa di violenza, specie per chi non l’ha scelta ma l’ha ricevuta in eredità. Non è visibile, non lascia segni sulla pelle, ma irrigidisce il cuore. Esty è portatrice di una diversità che ha bisogno di dispiegarsi e prendere forma, di ricominciare a respirare. I colori, le sensazioni, le diverse gradazioni della felicità: una diciannovenne di New York ha bisogno di esplorare la vita e viverla appieno, senza catene che la trascinino verso il fondo, verso il piattume di un’esistenza che non decolla mai veramente. Quel che ad un certo punto avverte, è l’esigenza di scappare, che non è solo un voler mettere le distanze tra sé e un mondo in cui non riesce ad essere appieno ciò che vorrebbe. È un’urgenza di esprimersi, di trovare se stessa e abbracciarla, sostenerla e accettarla per quel che è realmente. Esty non rinnega mai la sua cultura e la fede in Dio: trova solo una maniera personale di viverla, di andarci d’accordo. La miniserie Netflix – scritta da Anna Winger e Alexa Karolinski – sbalordisce chi la guarda perché sembra ambientata in un’epoca lontana e invece parla di vite totalmente immerse nella nostra contemporaneità. Il modo di vestire, l’anacronismo di certe convinzioni, la scoperta del mondo come cosa nuova, tracciano un solco profondo tra un certo modo di vivere e un altro.
Yanky è un personaggio che racchiude in sé questo dissidio, che si porta dietro una lacerazione che pian piano diventa sempre più struggente.
Perché se Esty è riuscita ad abbandonare la sua prigione, non tutti sono in grado di seguirne l’esempio. Unorthodox è un viaggio breve ma intenso alla ricerca della propria felicità. Un percorso che si alimenta del bisogno di autoaffermazione, della necessità viscerale di cercare una via d’emancipazione da tutto ciò che ci sta stretto. Non è un caso che sia la musica a suggerire alla protagonista un’alternativa alle privazioni di un mondo sordo e monotono. Le note musicali spingono l’anima a liberarsi da qualsiasi groviglio e a cercare se stessa. La scena del lago è probabilmente la più esemplificativa da questo punto di vista. Arrivata sulle rive del Lago Wannsee insieme ai suoi nuovi amici, Esty si libera poco alla volta delle proprie catene. Toglie via la parrucca, si lascia andare, si abbandona alla superficie placida dell’acqua, vi immerge la testa della quale si è appena riappropriata. È una sorta di Battesimo, una forma di purificazione spirituale. È catarsi, un grido di gioia, la presa di possesso della propria esistenza, una coraggiosa attestazione di vita. Unorthodox è un breve atto di ribellione che invita a riflettere e ad esplorare dentro noi stessi, a togliere i lucchetti dalle nostre vite incastrate e a trasformarle in uno straordinario canto di libertà.