La visione di Unorthodox è qualcosa che non si dimentica facilmente. Non è una di quelle serie tv che si guardano puramente per svago o per divertimento. Dopo aver concluso l’ultima puntata, riflettere è inevitabile. Perché il racconto che questa serie ci propone è fatto di dolore, rinunce, coraggio e libertà. Un’altra cosa che non si dimentica facilmente è il viso dolce e giovanissimo della protagonista: Esty è una ragazza il cui destino è già stato deciso, e non da lei. Si sposerà, darà alla luce molti bambini e vivrà (felice?) all’interno della sua comunità ebraico-ortodossa di Williamsburg, dove è nata e cresciuta e al di fuori dalla quale non ha mai messo piede. Come spesso le viene ripetuto “il tuo scopo è creare una famiglia, e la famiglia è tutto”. È questa la vita che la comunità ha già scelto per lei, ma cosa succede se una ragazza come Esty decide di mollare tutto e dare un’altra direzione alla sua vita? Questo è il racconto di Unorthodox, la serie tv rilasciata da Netflix tratta dalla storia (vera) della scrittrice Deborah Feldman. E noi l’abbiamo recensita per voi.
Avere 19 anni a Williamsburg
Com’è la vita di una qualsiasi ragazza diciannovenne a New York? Probabilmente come quella di tanti diciannovenni nel mondo: la scuola, gli amici e mille divertimenti. Questo però non vale se vivi nel quartiere di Williamsburg all’interno di una comunità ebraica aschenazita. Questa comunità si differenzia dalle altre anche perché chi ne fa parte vive secondo la cultura yiddish, le cui origini risalgono ad antiche comunità ebraiche stanziate sulla valle del Reno. Per chi ne è membro compiere 19 anni vuol dire aver raggiunto l’eta per sposarsi e per iniziare a metter su famiglia. È questo ciò che sta vivendo Esty, la protagonista di Unorthodox, una giovane ragazza che ha costruito la sua vita in questa realtà. Nella comunità yiddish è come se il tempo si fosse fermato, almeno agli occhi di chi non ne fa parte: le donne hanno un ruolo preciso, quello di madri e mogli, non lavorano e smettono di istruirsi a 17 anni. Tuttavia per le donne yiddish tutto ciò fa parte della tradizione, e quindi non ci sono motivi per “ribellarsi” o non adeguarsi a questo stile di vita. Ma Esty è, in qualche modo, diversa, e per lei piegarsi al ruolo che le viene affidato una volta sposata non è facile. La sua vita matrimoniale non la rende felice e non è come aveva immaginato. E allora Esty scappa: racimola i suoi risparmi e compra (o meglio, si fa comprare, perché a lei non è permesso farlo) un biglietto di sola andata per Berlino. Per la sua comunità un gesto del genere è inammissibile, e la famiglia di suo marito ne potrebbe rimanere gravemente disonorata: per questo il rabbino manda il marito di Esty, Yanky, aiutato dal cugino Moishe, alla ricerca della “pecorella smarrita”.
C’è una cosa che dobbiamo ricordare quando iniziamo Unorthodox: non possiamo guardare fino in fondo con i nostri occhi le vicende dei personaggi della comunità yiddish, perché la nostra visione è quella di chi non fa parte di una realtà dove la religione è così preponderante.
Dobbiamo invece filtrare ciò che vediamo come se noi stessi facessimo parte di quella comunità e fossimo immersi in quei valori, in quel mondo in cui è normale che una donna non possa suonare uno strumento musicale o non possa cantare in pubblico perché così è stato deciso dalle sacre scritture. Ed è vero, non è per niente semplice entrare in quest’ottica. Ma solo facendo questo sforzo possiamo cogliere ciò che Unorthodox vuole trasmetterci. Infatti, quando Esty fugge a Berlino, non lo fa perché si è stufata di dove vive o perché vuole provare l’ebbrezza di indossare dei jeans (le donne yiddish indossano solo gonne lunghe). Esty è scappata in Germania perché sta cercando una persona precisa, è vero (pian piano la serie ci svela chi) ma soprattutto perché è alla ricerca di se stessa. Una se stessa che a Williamsburg non ha saputo trovare, una se stessa che si vuole concedere il “lusso” di una vita felice, di una vita su cui avere il controllo. Per chi vive un’esistenza dove la religione non ne determina ogni singolo aspetto è normale ribellarsi o fuggire da una situazione così costrittiva. Ma per il modo in cui ha vissuto la protagonista di Unorthodox ciò non è per niente normale o tanto meno scontato.
Ed è questa la forza della storia di Esty e la portata del suo coraggio.
Unorthodox, infatti, è la storia di una donna di grande coraggio. E questo suo coraggio non consiste solo nel ritrovarsi in una metropoli dall’altra parte del mondo o di doversi arrangiare in una città come Berlino senza nemmeno sapere come funziona Internet. Il suo coraggio sta nell’ascoltare quella voce dentro di sé che dice una categorico “no” al mondo circostante. Il suo coraggio è quello di chi riesce a vedere più in là di quanto una vita di tradizioni e religione permettano di vedere, di chi vuole uscire dal ruolo imposto di moglie e procreatrice. Per certi versi, la forza di Esty è paragonabile a quella di June Osborne di The Handmaid’s Tale. La loro è una rivoluzione silenziosa a quello che la società (anche se i contesti sono fin troppo diversi in queste due serie tv) impone. E grazie a questa rivoluzione Esty cambierà non solo il contesto in cui vive, ma in primis se stessa. Capirà ciò che vuole o non vuole dalla vita, dal suo futuro e sarà in grado di autodeterminarsi.
Seneca scriveva in una delle sue lettere che il vero cambiamento nell’uomo avviene quando egli muta per primo il suo animo, non il cielo sotto il quale vive. Ed è proprio questo il percorso di Esty che Unorthodox ci racconta. Perché il suo coraggio e la forza d’animo possono essere un esempio per tutti quelli che, prima di cambiare la propria vita, vogliono cambiare se stessi.