La risposta ve la diamo subito: è forse. Ma partiamo dal principio.
DI COSA STIAMO PARLANDO? DISTOPIE E NUOVI MONDI
SPOILER ALERT su Black Mirror e Upload!
Da quando la tecnologia è entrata a far parte della nostra vita, immaginare come essa possa modificare radicalmente noi stessi e la società ha infiammato gli animi di scrittori, sceneggiatori e artisti di vario genere. Lo sapeva bene Aldous Huxley che, tra i primi, descrisse nella sua opera principale una delle più potenti e interessanti distopie del primo novecento (Il Mondo Nuovo – 1932), destinata a fare da apripista a un filone strampalato che, da figlio di un dio minore, si è tramutato in una delle correnti più variegate e remunerative della letteratura odierna. L’aveva capito Philip Dick, uno dei più grandi scrittori di fantascienza della storia, le cui opere ancora ci accompagnano nel panorama del cinema moderno, arricchendolo di una visione che risulta futuristica persino adesso, a quasi 100 anni dalla sua nascita. Basti pensare a Do Androids Dream of Electric Sheep? del 1968 (pubblicato in Italia come Il Cacciatore di Androidi) che, recuperato e adattato da Ridley Scott nel 1982, è stato consacrato a pietra miliare della fantascienza sotto il nome di Blade Runner, film cult per chiunque abbia velleità cinematografiche. Più recentemente, poi, possiamo ricordare The Man in the High Castle, datato 1962 (passato in Italia come La svastica sul sole), portato in auge dagli Amazon Studios nell’interessantissima serie omonima, ormai giunta alla quarta stagione.
Ma questi non sono che gli esempi più eclatanti di un trend che ha visto proliferare un po’ ovunque l’interesse per tutto ciò che si distacca dalla “normalità” (le virgolette sono obbligatorie) e che prevede la creazione di società, religioni, culture, persino entità alternative – le quali però affondano le radici nella realtà che conosciamo e che prevedrebbe in embrione tutte le caratteristiche e le problematiche di questi nuovi mondi. Nascono così le varie ucronie e distopie di cui l’esponente più eminente nel contesto seriale resta senza dubbio Black Mirror.
Black Mirror: lo specchio di ciò che potrebbe essere
Prodotta dal britannico Charlie Brooker (che ne è anche lo sceneggiatore principale), Black Mirror si presenta come una serie antologica il cui filo conduttore principale è il futuro prossimo, inteso non tanto come campo di azione quanto reame del possibile, quel possibile tecnologico e scientifico che tanto ci affascina ma che ci incute anche timore.
Attraverso episodi dal taglio cinematografico sia dal punto di vista della lunghezza (ogni episodio va dai 41 agli 89 min) sia soprattutto dal punto di vista registico e del comparto fotografia, ogni storia ci racconta un possibile risvolto nell’uso – spesso smodato, sbagliato, degenerato – della tecnologia e dei media, nonché della robotica o della genetica. La lente “black” porta come risultato la descrizione di una realtà angosciante e soffocante. Se dovessimo tirare le somme, non sbaglieremmo nel dire che il giudizio generale sulle nuove tecnologie e il loro utilizzo è generalmente negativo.
Che sia la tecnologia a prendere il sopravvento su un essere umano completamente passivo o che sia l’uomo a sfruttarne e degenerarne le caratteristiche a suo piacimento, la sensazione generale è quella di un rapporto comunque malato, che costruisce realtà in cui difficilmente qualcuno di noi vorrebbe davvero vivere – arrivando così a stabilire l’essenza ultima della dis-utopia. Guardando Black Mirror ci si potrebbe chiedere se sia possibile parlare di distopie e tecnologia attraverso una lente più leggera. La risposta è: forse sì.
E l’esempio più recente e forse anche di maggiore impatto è Upload.
Upload: il contraltare di Black Mirror?
Apparsa su Amazon Prime Video il 1 maggio del 2020, Upload è stata scritta nientemeno che da Greg Daniels, autore di The Office, dalla quale riprende i toni comedy che rendono Upload così godibile nonostante la macabra premessa.
Sì, perché l’incipit della serie potrebbe perfettamente piazzarsi nell’antologica Black Mirror: Nathan Brown (un bravo Robbie Amell), ingegnere informatico di una non ben specificata start-up, muore a causa di un misterioso incidente stradale. Grazie alla sua ricca fidanzata Ingrid (un’Allegra Edwards sopra le righe), viene uploadato nel paradiso virtuale Lakeview dove potrà trascorrere l’eternità nei comfort e nei gadget previsti dal suo pacchetto VIP. Ad accompagnarlo nel suo soggiorno c’è il suo “angelo custode” Nora (un’insospettabile Andy Allo), ossia una dipendente dell’azienda che funge da elemento di contatto tra gli avatar caricati e la piattaforma.
Se la premessa è, appunto, materiale già visto (la stessa Black Mirror aveva affrontato il tema della realtà virtuale e dell’aldilà nell’efficacissima San Junipero) è il tono quello che contraddistingue questa serie, a metà tra la comedy e la romance pura. Tutti gli elementi distintivi della distopia sono presenti. La realtà virtuale non è perfetta come sembra e Nathan comincerà a intuirlo quando scoprirà l’esistenza di un intero piano dedicato agli avatar che non possono permettersi un accesso illimitato alla tecnologia. Così come in vita, anche nella morte la dignità si conquista e si mantiene col denaro, allegoria neanche troppo mascherata di una divisione di classe permanente persino nell’aldilà. Eppure, dal versante dell’angelo vivente Nora, ritroviamo una volontà sempre più pressante di sfuggire dalla vera realtà – comunque più oscura e noiosa – per immergersi in quella finta, sì, ma colorata e dolce del virtuale.
La critica alla tecnologia e all’uso che se ne fa è sempre presente nello sfondo, anche se è chiaro che essa passi spesso in secondo piano rispetto alle vicende romantiche del protagonista, diviso tra il neonato sentimento per Nora e la grottesca relazione con Ingrid. Per certi versi, anche queste due relazioni introducono spunti interessanti: dall’attività sessuale tra un avatar e un vivente, alle implicazioni di una dipendenza economica dell’avatar, ai rischi di essere cancellati se per caso l’hard disk finisce in cattive mani.
L’impressione è che Upload dica molto, ma lo faccia con un mix di mood e toni che rendono inevitabile la superficialità di alcune tematiche a favore della trama principale (romantica). Volendo fare un confronto, potremmo definire Upload una versione diluita di un episodio di Black Mirror che, sotto al filtro color pastello, cerca comunque di stimolare domande scomode, spesso però in modo poco incisivo e poco focalizzato. Se queste domande, poi, siano efficacemente raccolte ed elaborate dal pubblico è forse un po’ presto per dirlo. La serie sembra comunque cosciente del proprio potenziale e la chiusura della prima stagione – che non anticipiamo per evitare spoiler – parrebbe dirigersi verso la direzione di un approfondimento della realtà distopica in cui è immersa, pur senza rinunciare al suo mix di mood e generi.
Eppure, potrebbe essere proprio un nuovo equilibrio tra la sua anima comedy e le tematiche futuristiche a fare di Upload un prodotto distintivo, creandogli una nicchia speciale in un filone già molto affollato che possa evitargli paragoni scomodi con prodotti più longevi, ma soprattutto più incisivi.