C’era una volta, in un tempo molto lontano, un tempo in cui le fangirl scrivevano fanfiction sui Jonas Brothers su Youtube per poi evolversi e sbarcare su EFP, un tempo in cui Disney Channel mandava in onda le serie degli anni d’oro e per guardare le serie tv in contemporanea con gli Stati Uniti non si dormiva la notte per “fare diretta”. Parliamo di un tempo in cui ci si inviava Poker Face di Lady Gaga col bluetooth su cellulare. In quel periodo, in un universo che ormai sembra obsoleto e lontanissimo, nacque una serie tv che avrebbe cambiato il mondo o quantomeno il mio mondo: Glee.
In quegli anni ero solita organizzare con due mie amiche dei serial party per guardare la puntata di Chuck (qui le citazioni più iconiche della serie) il giorno dopo la messa in onda americana. Proprio in una di quelle occasioni, ci imbattemmo in un Forumfree dedicato a Cory Monteith. Non c’entrava proprio niente con il nostro amato nerd diventato spia, ma quel viso bonaccione e quel sorriso a metà, ci attirarono e finimmo nella trappola pericolosissima di Glee. Ancora inedito in Italia, scaricammo con metodi sicuramente legali *wink wink* il pilot della serie e tra una crêpes e l’altra ci ritrovammo ad affogare in questo affascinante nuovo mondo fatto di musica, drammi adolescenziali e una fenomenale ironia che ci faceva piegare in due dalle risate.
Avendo tutte e tre alle spalle un passato come membri del coro della chiesa di quartiere e avendo una folle passione per la musica, motivo per il quale oltre ai serie party facevamo anche serate karaoke imbarazzantissime, Glee (qui perché mi ha cambiato la vita) ci rapì. Io, più delle altre, ne rimasi folgorata, me ne innamorai così profondamente che per anni non ho fatto altro che parlare di questa serie. I miei amici continuavano a ripetermi che ero diventata monotematica, ma il mio mondo era stato stravolto e non poteva più tornare al suo stato iniziale, un po’ come succede nel Il Viaggio dell’Eroe, una volta uscito dal mondo ordinario, l’eroe si trova catapultato in quello straordinario e varcata la soglia tra i due mondi, non si torna indietro (almeno non finché non si è completato il viaggio). Non c’era alcun modo per estirpare dalla mia testa questa serie. Bisognava solamente farsene una ragione e lasciare che l’ossessione scemasse in interesse e poi in ricordo che tutt’ora conservo gelosamente assieme a tutti i miei cimeli collezionati negli anni.
Da aspirante cantante e fierissima Broadway Baby, immergermi nelle avventure del Glee Club era per me l’equivalente di un bambino sotto l’effetto di zuccheri che è rimasto sveglio oltre l’ora della buonanotte e che si è ritrovato – chissà come – in un Luna Park interamente a sua disposizione. La mia intenzione – già all’epoca – di sfondare nel mondo della musica o quantomeno quello dei musical, ricevette una dose di adrenalina non indifferente.
Le storie di ciascun membro del Glee Club riuscivano a toccare delle corde che nessun altra serie era riuscita – fino a quel momento – nemmeno a sfiorare. L’ambizione di Rachel Berry e la sua sicurezza erano puro carburante che avrebbe potuto spronare chiunque a raggiungere (o quantomeno provarci) qualunque obiettivo si fosse prefissato, anche scalare il cielo fino ad arrivare alla luna. Allo stesso tempo, il disorientamento di Finn era l’elemento realistico che riusciva a riportare chiunque con i piedi per terra, anche il più ambizioso dei sognatori, ma senza spezzargli le ali; invece, ponendolo davanti a delle questioni reali e a dei dubbi plausibili delle rispettive ambizioni. Ed era proprio per questo, per questo compensarsi e bilanciarsi che la coppia Finchel, formata da Finn e Rachel, mi faceva volare e toccare l’iperuranio.
Poi c’era Quinn Fabray, splendidamente imperfetta in tutto il suo essere. Un personaggio troppo maltrattato e messo da parte come valesse niente. Quinn l’incompresa tra gli incompresi, quella che aveva forse più strati e profondità di chiunque altro e che per un’antipatia (quella dichiarata di Murphy per Dianna Agron) è rimasta inesplorata. Sarebbe potuta arrivare a tanta gente, io ero incredibilmente incuriosita e affascinata da questo personaggio, tant’è vero che era al primo posto tra i miei personaggi preferiti assieme all’unica, inimitabile Santana Lopez.
Glee aveva quella incredibile capacità di farti credere che tutto fosse possibile, che potevi essere la persona più anonima sulla faccia della terra, ma che comunque in te qualcosa di speciale c’era e cha avresti potuto raggiungere qualunque obiettivo e qualunque meta ti fossi prefissato. Certo, poi si cresce e quell’ingenuità tipica dell’adolescenza lascia il posto a un mondo che ti sbatte in faccia la dura verità senza troppo tatto. E quegli obiettivi cominciano a diventare sempre più irrealizzabili e sempre più sogni e prima di accorgertene sono tornati in un cassetto, ma non per questo – ogni volta che parte Don’t Stop Believin’ – escono dal loro posto designato e tornano a farci battere il cuore come la prima volta.
Personalmente, prima di Glee, mi sono sempre sentita un po’ incompresa, un po’ diversa dai miei coetanei – e no, questa non è la solita introduzione al personaggio principale di una qualunque serie tv sugli adolescenti americani, non sto replicando Rachel Berry prima del suo provino di On My Own nel Pilot – nonostante avessi una vasta cerchia di amici e non fossi la più sfigata tra gli sfigati, mi sono sempre amalgamata con gli altri per paura di mostrare la mia diversità, la mia stranezza. Questo fino a quando ho cominciato a guardare Glee. Sì, lo so, sembra una leccata di sedere bella profonda quasi quanto una colonscopia, ma che ci posso fare? E’ la realtà. Impersonavo la tipica fangirl di Tumblr in tutto e per tutto e non me ne vergognavo nemmeno un po’.
Ma torniamo a Glee, basta sentire le prime note di Don’t Stop Believin’ per risvegliare tutti quei ricordi, tutti quei sogni e quelle sensazioni di quand’ero un’adolescente, ma soprattutto un’aspirante cantante. Sì, perché quei ragazzi con il loro entusiasmo, con la loro voglia di fare, di crescere, di realizzare i loro sogni, riuscivano davvero a diffondere quella voglia di sognare, quella voglia di battersi per realizzare i propri obiettivi. Glee ci ha fatto sentire capaci di tutto, ci ha fatto sentire invincibili.
E proprio in merito a questo concetto, il concetto dell’invincibilità, mi torna in mente una frase che calza a pennello di un autore che amavo follemente a quei tempi, John Green.
“I giovani si credono invincibili.” È vero. La disperazione non fa per noi, perché niente può ferirci irreparabilmente. Ci crediamo invincibili perché lo siamo. Non possiamo nascere, e non possiamo morire. Come l’energia, possiamo solo cambiare forma, dimensioni, manifestazioni. Gli adulti, invecchiando, lo dimenticano. Hanno una grande paura di perdere, di fallire. Ma quella parte di noi che è un po’ più grande della somma delle nostre parti non ha un inizio e non ha una fine, e dunque non può fallire.
– John Green, Cercando Alaska
E Glee ci ha fatto sentire tutti un po’ invincibili, un po’ infallibili perché in quel momento lo eravamo. Potevamo essere dei piccoli Rachel Berry, degli small town girl e boy che avrebbero potuto raggiungere qualunque obiettivo. Potevamo essere dei Santana Lopez, senza un minimo di prospettiva per il futuro e poi – in realtà – pieni di desideri e sogni che non credevamo di avere il coraggio e la possibilità di sognare. Potevamo essere dei Finn Hudson, convinti di non essere abbastanza intelligenti, bravi, forti per meritare il nostro posto nel mondo per poi scoprire che non era assolutamente così. Potevamo essere dei Quinn Fabray, imperfetti, con tanti errori alle spalle, ma davanti un futuro che attendeva solo di essere costruito e vissuto. Potevamo essere delle Mercedes Jones, tremendamente talentose, tremendamente capaci e credere di essere relegate sullo sfondo, di non essere protagoniste del nostro film solo per poi capire che dovevamo solo trovare il nostro vero riflettore, quello che ci avrebbe fatto brillare più di tutti.
Insomma, Glee ci ha rivoluzionato l’esistenza e non lo dico in qualità di gleek incallita, non lo dico solo perché once a gleek always a gleek, lo dico perché obiettivamente quella serie è stata una grandissima liberazione per un’intera generazione e ha seminato i frutti che i nuovi adolescenti anche inconsapevolmente stanno cogliendo adesso. Ha sdoganato l’allora tabù dell’omosessualità, ha distrutto lo stereotipo degli sfigati, li ha resi i più fighi di tutti e lo ha fatto includendo tutte le minoranze, ma senza mai calcare la mano e sconfinare in moralismi inutili e pesanti che nessun adolescente avrebbe mai apprezzato. Glee aveva un grande punto di forza – a parte la musica – e quel punto di forza era la leggerezza.
Certo, ci ha fatto soffrire come tutte le serie e come tutto ci faceva soffrire in quel periodo, ma ci ha regalato momenti indimenticabili che sono stati un reset culturale per un’intera generazione e per le successive e nonostante ne sia passato di tempo e certe tematiche possano risultare oggi un po’ obsolete e scontate, dovremmo ricordarci che è proprio grazie a questa serie che lo sono, è proprio grazie al genio di Rayan Murphy che non sono più tabù. È merito di quei ragazzi che seduti in un’aula di musica cantavano le loro emozioni privandosi di qualunque maschera e velo e mostrandosi in tutta la loro perfetta imperfezione.
Forse di serie tv come Glee non ce ne saranno più: per quanto le vogliano emulare, non ci sarà più una serie che ha unito e messo insieme gli adolescenti (e non solo) di tutto il mondo, superando i confini territoriali e allargandosi fino a raggiungere letteralmente tutti. Di Glee si diceva che era un vero e proprio fenomeno sociale, che aveva rivoluzionato il modo di fare televisione e di parlare di adolescenti in televisione, e mai definizione fu tanto azzeccata.