L’inizio di ogni cosa deriva dalla fine. Così, in Six Feet Under, la vita si miscela nella lenta dissolvenza di uno schermo bianco e inizia la sua quotidiana danza con la morte. La serie capolavoro di Alan Ball, targata HBO, è andata in onda dal 2001 al 2005 ed è stata accolta con estremo entusiasmo dal pubblico e dalla critica, vincendo 3 Golden Globe e 9 Emmy.
L’arte non ha tempo e, nonostante siano passati ormai venti anni dal quando il primo episodio di Six Feet Under colorava per la prima volta i nostri schermi, la serie tv non perde il suo splendore. La superficie di bellezza e profondità che caratterizza il prodotto è ancora perfettamente limpida e smaltata.
La verità è che parlare della vita è piuttosto facile, in qualche modo viviamo tutti. Ognuno di noi si sveglia la mattina e incrocia il suo sguardo nello specchio. In modo più o meno tacito ci si interroga su chi si vuole essere, che immagine si vuole dare di se stessi, dove si vuole andare. Lo facciamo tutti in modo perfettamente diverso ma con un’unica costante tacita: la morte.
La morte è il punto che determina la fine della frase che è la nostra esistenza. Tutti vivono in modo diverso ma tutti, prima o poi, incontrano la morte. Il fatto è che parlare della vita è più semplice, più sicuro e più certo. Sperimentiamo nel quotidiano di noi stessi cosa significhi vivere, anche se non ne cogliamo pienamente lo scopo, ma tutti abbiamo paura. La morte è il più grande tabù dell’essere umano, in quanto nessuno può spiegarlo davvero. L’arte ha il compito di tradurre la vita, la sensibilità propria dell’artista pone degli occhiali da vista al mondo e gli fornisce una sua interpretazione dell’invisibile. Ma anche l’artista non è capace di trascrivere la morte.
Solo i più coraggiosi ci provano e Alan Ball, con Six Feet Under, è stato forse il più coraggioso di tutti, ripercorrendo a piedi nudi quei sei piedi di terra che dividono la vita dalla morte.
Non ci sono supereroi nella famiglia Fisher. Six Feet Under diviene la carta carbone che si interpone tra la realtà e il quotidiano.
Nel ricalcare i tratti del fulire tipico dell’esistenza, Alan Ball ci trasporta tra le mura di quella casa funeraria, in cui ogni piano rappresenta una gradazione dell’ordinario. Al centro di tutto c’è la vita. L’ingresso diviene il teatro del sociale: c’è chi entra con le lacrime di una perdita ancora incastrate sul volto e chi si avvicina in punta di piedi per un pranzo o una cena, con la delicatezza tipica di chi maneggia del cristallo con la costante paura di rompere qualcosa.
Sulle mattonelle fredde di quell’ingresso sono passate tante storie, come cera è scivolato via il dolore di qualcun altro, che si è inevitabilmente avviluppato intorno alle vite dei protagonisti e alle nostre, quasi a voler trarre un costante insegnamento dalla morte, che diviene un modo per dare un senso alla vita.
Al piano inferiore, invece, troviamo la realtà dietro la finzione. I corpi si stagliano pesanti nella loro verità decomposta. I Fisher, con l’aiuto di Federico, si impegnano nel confezionare una bugia, per rendere la morte più appetibile e il cadavere una sorta di dormiente silente. Il deceduto è ora muto e privo di una storia, i caos piangente dei suoi affetti è lontano, il tabù si spoglia e diventa solamente morte.
È ai piani superiori che si snocciola il quotidiano. Nelle porte chiuse delle camere da letto, in quelle semplicemente accostate e quelle di cui si è ormai persa la chiave. Le stanze si riempiono degli odori avvolgenti dei cibi preparati da Ruth, dei silenzi scostanti dopo un litigio e delle riflessioni lasciate a mezz’aria sulla vita, sugli amori, sulle incomprensioni e sul lavoro. I protagonisti in quelle stanze costruiscono la conoscenza di un rapporto e di se stessi, lasciano che le barriere si sciolgano e si aprono al confronto, combattendo contro la paura di non essere compresi, la paura di amare.
L’esperienza della morte, come ci insegna Six Feet Under, è l’esperienza della paura.
Analizzare la paura è un po’ analizzare la morte nella vita. Le cinque stagioni della serie di Alan Ball ci restituiscono un fotogramma dettagliato e sconvolgente della paura. A partire da Nate, dalla sua ricerca involontaria di disquilibrio come contraltare ai suoi timori di stabilità. Il sesso e la fuga sono la sua risposta alla paura. Il fatto di essere nato in mezzo alla morte diventa una paralisi alle sue capacità di amare. Amare qualcosa che prima o poi perderai è una meschina forma di tortura. Nate è paralizzato e tale rimane fin quando non impara che l’amore, in tutte le sue forme, è il nesso intrinseco della vitalità, l’unico lascito di bellezza in grado di sopraffare la fine.
Poi c’è Ruth, che appoggia la sua esistenza sulle spalle di qualcun altro. Lei nasconde la solitudine come un mostro sotto il suo letto perfettamente rassettato. Si getta nelle braccia incontrollate del mondo pur di non sentire il peso di se stessa, trovando poi il coraggio di sperimentarsi e vivere per ritrovare la sua voce.
David Fisher, interpretato da uno straordinario Michael C. Hall, fa i conti con la sua sessualità e con la paura della fragilità insista nel suo essere. L’apparenza e il perfezionismo diventano uno scudo in grado di allontanare gli altri dall’essenza, imbalsamando la sua identità e le sue emozioni come fossero cadaveri da ricomporre. Nascondersi è un po’ come morire, David inizia a vivere davvero quando scioglie il trucco dal suo volto e si presenta a se stesso e agli altri.
Infine accompagniamo Claire Fisher nel torbido mondo della crescita. Claire è l’artista, impersona quell’arte incaricata di donare la vista al mondo. Si incammina incerta sulla strada asfaltata che conduce al suo futuro. Si incammina con la paura di inciampare da un momento all’altro, con il timore di non saper affrontare la realtà, di scontrarsi contro un futuro che mal si concilia con le sue aspettative. Claire ha paura di ciò che è perché ha paura di non lasciare niente, di non essere niente.
I suoi occhi chiari intrappolano il mondo in una fotografia, quasi a voler fermare il tempo e fregare la morte con un gioco di luci e specchi.
Ma le emozioni ruvide dell’esistenza non possono incanalarsi nella trama lucida di una fotografia. La vita si staglia oltre l’obiettivo e non basta saper guardare nel mirino e bilanciare l’apertura di un diaframma. La vita, quella vera, è a un passo dall’orizzonte e l’unica soluzione è corrergli incontro prima che il tramonto porti via con sè la luce e l’attimo ci sfugga dalle mani come un bicchiere di cristallo insaponato.
Perchè per fregare il tempo non basta rompere un orologio, scattare una fotografia e incorniciare un ricordo. Questa è un’illusione.
You can’t take a picture of this. It’s already gone.