Sydney Bristow è ancora una studentessa del college quando le viene proposto di diventare un agente operativo per l’SD-6, una sezione segreta della CIA. Lei accetta l’offerta, e l’avventura di Alias prende il volo.
Entrata nella Top20 delle migliori serie televisive del ventennio 1990-2010, Alias è il primo di una lunga scia di successi di Jeffrey Jacob Abrams, J.J.
Prima del misticismo di Lost e della rivoluzione tecnologica di Fringe, il produttore ha miscelato in un mix esplosivo spionaggio e fantascienza, facendo colpo. Alias é andata in onda dal 2001 al 2006, 5 stagioni, 105 episodi per 45 minuti l’uno. È stata la degna madrina di serie recenti quali Person of Interest e della nuovissima 22.11.63, di cui Abrams ricopre il ruolo di produttore esecutivo.
Diventata un cult, vale la pena di soffermarsi sul perché una serie che tratta un argomento poi non nuovissimo al grande pubblico abbia macinato milioni di telespettatori affezionati per anni. Dieci anni fa la serialità televisiva non era come la conosciamo, i “telefilm” da tv erano paragonabili ai film di serie B, quelli fatti appositamente per il piccolo schermo. Alias è invece molto più vicina a un blockbuster di quanto si possa pensare.
Il taglio di ripresa cinematografico, il ritmo incalzante e la musica ipnotica sono sicuramente dei caratteri che difficilmente si riusciva ad avere in un telefilm di inizio millennio. Sidney Bristow (Jennifer Garner), Bond Girl in gonnella e parrucche multicolor, viene spedita in missioni quasi suicide dal capo dell’agenzia per cui lavora, Alvin Sloane (Ron Rifkin), ossessionato dalle teorie futuristiche di un genio rinascimentale, Milo Rambaldi, una sorta di Leonardo e Nostradamus insieme. Le manie d’onnipotenza di un milionario non suonano nuove alle nostre orecchie, basta dare uno sguardo ai più famosi fumetti Marvel e DC per avere un campionario di nomi a cui ispirarsi. Durante le sue missioni l’agente Bristow visiterà i posti più belli della Terra: tenute diplomatiche, isole incontaminate, residence esclusivi, metropoli avveniristiche… come molti anni dopo i Wachowski Bros hanno fatto con Sense8, un tripudio per gli occhi dello spettatore che non si accontenta della classica azione, ma vuole “vedere” oltre, proprio come accade nei film ad alto budget.
Con il passare delle stagioni il doppio filone narrativo si disgrega e si ricompone, esaminando da una parte la profezia di Rambaldi, dall’altra i rapporti familiari e lavorativi dei protagonisti. Oltre a Sid e il villain Sloane, il cast eccezionale vanta nomi del calibro di Lena Olin e Victor Garber, nei panni della madre spia russa del KGB e del padre agente doppiogiochista per la vera CIA; Michael Vartan, Kevin Weisman, Greg Grunberg, David Anders, tutti lanciati in ruoli forti anche nelle serie successive (Anders è il Dr. Whale/Victor Frankestein in OUAT, per esempio). Ogni genere di personaggio è costruito con spessore, dall’hacker pazzoide al sadico narcisista, all’algida bastarda al boyscout perbenista, per non parlare delle special guest in apparizioni marginali ma diventate memorabili (Quentin Tarantino, Ethan Hawke, Christian Slater, Rutger Hauer, David Carradine, David Cronenberg, Isabella Rossellini, solo per citarne alcuni).
La sceneggiatura in cinque stagioni ha saputo mantenere alto l’interesse dello spettatore, grazie ai continui colpi di scena, lo smantellamento di trame e la ricostruzione di rapporti, senza mai scadere nel cliché televisivo. È credibile vedere Sid in ogni suo alias parlare fluentemente coreano o mandarino, armeggiare con maestria pistole e pugnali, cercare di mantenere un legame affettivo con il collega e con il padre, persino è umano vedere come un agente addestrato si faccia manipolare da un altro, se questa è la madre. Tutto è studiato nei minimi dettagli senza appesantire la struttura narrativa già ridondante, con gli effetti speciali impeccabili nel loro essere poco visibili.
La spettacolarizzazione del genere spy avviene grazie ad un massiccio utilizzo di accorgimenti tecnico/narrativi come l’uso magistrale di cliffhanger e flashback per rompere la normale linea temporale generando azione; il taglio cinematografico dato alle scene di lotta con musica sparata a palla con la Bristow travestita ogni volta in modo a regola d’arte, quando interpreta una giovane punk arrabbiata o una signora aristocratica con collier di pelle.
Nell’ultima stagione si sono tirate le fila degli intrecci, e come ogni buona serie che si rispetti ha il suo pienone di morti annunciate, vere o false che siano, colpi di scena definitivi e chiusure forzate. Un aspetto poco convincente è stato il modo troppo frettoloso con cui gli autori hanno chiuso l’argomento Rambaldi, con gli aspetti mistico-religiosi relegati a siparietto, dopo che questo filone è bastato da solo a costruire una serie di sottotrame che si sono poi sviluppate autonomamente. Il sacrificio dei cari e i peccati da espiare dei cattivi sono stati un po’ scontati, così come il flashforward con l’alias di una Sid incinta e raggiante.
Ma ogni tanto ci meritiamo una happy-ending almeno televisivo, no?!