Watchmen 1×01 recensione
e commento con spoiler.
It’s Summer and We’re Running Out of Ice è un’esperienza profondamente destabilizzante. Tesa e oscura. Capace di scuotere i neofiti dell’opera di Moore e Gibbson e al contempo in grado di soddisfare i palati fini dei fan dell’originale. Un lavoro, quello della HBO, che offre idee nuove e spettacolo in egual misura, senza tradire la cifra, il respiro e le atmosfere del fumetto. Damon Lindelof in questo Watchmen 1×01 mette in campo coraggio e ambizione. Reinterpreta senza scimmiottare. Riscrive senza plagiare. Nell’inevitabile ripermutare del già detto a cui nessuno può sfuggire, Lindelof osa sfidare il cielo tenendo però i piedi ben piantati per terra.
Prima di lanciarci a capofitto in “È estate e stiamo finendo il ghiaccio” è importante provare a chiarire subito un legittimo dubbio: “Dovrei leggere il fumetto prima di vederlo“? Avere un’idea del contesto sarebbe utile, poiché gli eventi del fumetto sono completamente integrati nella serie.
Eppure Watchmen 1×01, come detto poco fa, rappresenta un’esperienza profondamente destabilizzante per chiunque. Sia per coloro che hanno una relazione adorante con l’originale che per quelli che non l’hanno mai sperimentato in nessuna forma. La condizione necessaria è essere figli del nostro tempo. Conoscere la realtà sociale e le dinamiche che ancora oggi ci percuotono. Molto più facile per il pubblico americano, direttamente chiamato in causa, come vedremo. Ma anche per tutti gli altri. Con un meccanismo analogo a quello che lo stesso Moore utilizzò nella sua opera usando la guerra del Vietnam come sfondo e motore di vicende e personaggi.
La società raccontata in Watchmen è lo specchio deformante che vuole mostrarci il riflesso della realtà. Distopico, certamente, ma così credibile nelle sue dinamiche da risultare verosimile fino al punto di essere disturbante. A conti fatti allora è probabilmente ottimale aver letto il fumetto prima di vedere “Watchmen”. Ma alla sola condizione di essere disposti ad allentare la presa affettiva su di esso.
Lindelof è a suo agio nel risultare “eretico”, ma senza per questo macchiarsi di essere dissacrante.
La sequenza di apertura era un banco di prova importante. Lo fu per Zack Snyder nel 2009 che mise in scena un’ottima chiave visiva dell’ouverture del fumetto, probabilmente il punto più alto dell’intera pellicola. Lo è per Lindelof che reinventa una sequenza d’apertura che è già una dichiarazione d’intenti. Vediamo un film muto che contiene in se il nocciolo degli elementi fondanti questo episodio, e verosimilmente anche della serie. Il cappello da “cowboy” come maschera ante litteram mostra uno sceriffo bianco, che ruba il bestiame, in fuga da un eroico straniero mascherato con un cappello nero. Lo straniero, che si rivelerà Bass Reeves – “il Maresciallo Nero dell’Oklahoma” – cattura lo sceriffo.
I parrocchiani tutti rigorosamente bianchi chiedono di sapere chi ha legato lo sceriffo. Li vediamo poi, la pellicola è quella di un film muto con le didascalie, chiedere il linciaggio. La richiesta è riferita al furfante sceriffo bianco e non al maresciallo nero che lo ha arrestato. La risposta di Reeves è un’altro tassello del puzzle (tecnica tanto cara a Lindelof)
“Oggi non ci sarà giustizia della folla! Fidatevi della legge!”
Siamo ancora cercando di decodificare i molteplici paradossi di questo estratto di film all’interno dell’episodio che veniamo catapultati durante la rivolta di Tulsa del 1921. Un massacro durato due giorni in cui residenti e attività commerciali della popolazione nera furono vittime di una violenta folla bianca. La scelta di spostare, come si vedrà nel proseguo dell’episodio, l’attenzione da New York, come nell’originale, alla cittadina in Oklahoma, da l’opportunità a Watchmen di superare i conflitti degli anni della guerra Fredda e introdurre temi molto più contemporanei. Questo “Watchmen” insomma prende di mira il razzismo e la supremazia bianca allo stesso modo di come Moore e Gibbons avevano fatto con la guerra fredda e la minaccia nucleare. La rivolta, quindi, è un evento fondamentale, anche se serviranno più episodi probabilmente per coglierlo a pieno.
La confusione vorticosa a cui siamo stati esposti persiste fino a quando la scena si sposta ai giorni nostri e iniziamo a prendere consapevolezza dello scenario con cui avremo a che fare. Un autista bianco viene fermato da un agente di polizia nero, con una bandana gialla a coprirgli il volto. Tutto in questo incontro è teso a sollevare interrogativi: viene invertita la dinamica razziale che siamo abituati a vedere tra poliziotti bianchi e autisti neri. La polizia viene presentata come una forza contro la supremazia bianca. Soprattutto ci mostra una cultura delle armi da fuoco in cui l’accesso, anche da parte delle forze dell’ordine in servizio, è rigorosamente vincolato a un complesso protocollo da remoto. Ovviamente il poliziotto muore, non prima di aver notato una maschera di Rorschach nel portaoggetti.
Se questo è il mondo creato dall’esistenza dei supereroi negli anni ’80, allora quella famosa farfalla deve aver sbattuto le ali piuttosto forte.
Le vicende che seguono ruotano attorno alla risposta della polizia di Tulsa al redivivo Settimo Reggimento. Versione moderna del K.K.K. con la maschera di Walter Joseph Kovacs. E il cui diario vien eletto a testo sacro. Il capo della polizia Judd Crawford (Don Johnson) invita il suo dipartimento a reagire alla minaccia. Ma anche loro devono nascondere la propria identità per non rischiare rappresaglie e coinvolgere i familiari. Scopriamo così uno degli elementi di spicco delle forze dell’ordine: la detective Angela Abar, nome in codice Sister Night (Regina King). Angela guiderà l’assalto al ranch dei suprematisti, dopo aver ottenuto le informazioni sulla loro posizione con un pestaggio che ci riporta alla mente la morte del nano in prigione da parte di Kovacs. L’inquadratura dell’acqua mista a sangue che esce da sotto la porta è stata un’apprezzata strizzata d’occhio al passato.
Il finale è un trampolino di lancio verso i prossimi episodi. Crawford, appeso a una quercia e sotto di lui un misterioso uomo indebolito su una sedia a rotelle (Louis Gossett Jr). In grembo ha il biglietto, visto a inizio episodio, consegnato dal padre al bambino di colore che fuggiva dalla rivolta di un secolo prima. “Watch Over This Boy“, si legge. Non ci interessa in questa sede speculare su questo, meglio attendere con impazienza la prossima settimana.
Tralasciando però il cosa è il come ci viene raccontato che è davvero interessante. La contraddizione è l’elemento fondante. Lindelof racconta l’universo di Watchmen. Quello messo a ferro e fuoco dal Comico e abbandonato dal dr. Manhattan. Quello plasmato da Ozymandias e subito da una nazione che cerca di reagire e reimporre se stessa. Eppure è un altro.
I legami con il passato, con l’originale, sono relegati a piccoli ma fondanti elementi. Le maschere, su tutte quella di Rorschach, ovviamente. Ma ve ne sono molti altri.
Gli orologi innanzi tutto. Il giallo, colore simbolo di Watchmen. Lo smile, questa volta solo accennato nella frittata che Angela sta preparando a scuola. Il meccanismo della destrutturazione di Lindelof è sapiente e affascinante, ma proseguiamo. Il motto della polizia: “Quis Custodiet Ipsos Custodes?” la cui inquietante ma conseguentemente lineare risposta è “Facimus” (Chi controlla i controllori? – (noi lo) Facciamo). L’ambientazione è un presente retro-futurista in parte fermo alla metà degli anni ’80, senza computer, senza cellulari. Di fatto molto vicino a quello visto alla fine dell’opera di Moore. Ancora. Il cartello mosso dinnanzi ad Angela con la scritta “The future is bright” che ricorda il “The end is nigh” di Kovacs. O lo show televisivo American Hero Story: Minutemen che viene pubblicizzato su pulmann e dirigibili, parodia di American Crime Story, racconta delle vicende di Hooded Justice, il primo eroe mascherato dell’ambientazione Watchman.
Ma sono i personaggi il vero legame. Judd Crawford ha un qualcosa che richiama alla mente il Comico. Non solo per la scena finale e la goccia di sangue che cade sulla stella, e non sullo smile. Ma per certe sue espressioni e atteggiamenti. I modi di fare duri da uomo degli stati del sud misti a una vena quasi poetica, come nella canzone a cena. Il dr. Manhattan che vediamo solo per pochi secondi su Marte mentre distrugge un edificio con le parole di Angela in sottofondo. E l’edificio distrutto ci porta all’ultimo passaggio. Quell’edificio ricorda terribilmente la splendida magione di campagna dove vediamo un nobile aristocratico fuori dal tempo.
Ci vuole poco a vedere in lui Adrian Veidt. Anche non sapendo il ruolo interpretato da Jeremy Irons è chiaro che ci troviamo dinnanzi allo stesso Ozymandias, in una scena surreale e destabilizzante in cui ancora una volta al “cosa” stia succedendo, ci colpisce il “quando“. Tutto è fuori dal tempo. Poco prima avevamo visto un titolo di giornale annunciare la definitiva morte proprio di Veidt. Il fatto poi che, dopo aver visto il dr. Manhattan distruggere qualcosa delle fattezza della sua casa, scopriamo che costui sta scrivendo una commedia intitolata “Il figlio dell’orologiaio“. Chiaro è il riferimento proprio al suo vecchio compare blu. Effettivamente figlio di un orologiaio e spinto proprio dal padre a studiare la fisica nucleare. Inutile speculare anche qui su cosa accadrà, tanto vale aspettare e confidare in Damon. Anche se una domanda non riusciamo a togliercela dalla testa: perché mai Adrian Veidt riceve un ferro di cavallo dal suo maggiordomo per tagliare la torta?
Alla prossima settimana.