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Watchmen: la cruda estetica di HBO

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Diario di Rorschach, 12 ottobre 1985…

Anche se oggi a parlare di prequel, sequel e remake è presto detto, mi ricordo ancora che c’era un tempo in cui si percepiva un certo timore reverenziale nell’adattare un film considerato un classico, come Watchmen. Questo perché già il film in questione aveva alle spalle una schiera nutrita di fan della graphic novel DC Comics. Tutti dal forcone infuocato facile, pronti a dare inizio alla loro personalissima caccia alle streghe. Di conseguenza “il signor adattamento televisivo” doveva pensarci due volte, se non tre, prima di venire alla luce, pena la condanna per blasfemia e la conseguente messa al rogo. Succede quindi che, nel 2019, sul canale HBO esca una miniserie dalla grandi ambizioni e dal titolo altisonante: Watchmen appunto. Al timone troviamo Damon Lindelof – creatore di Lost e The Leftovers – mentre nel cast compaiono nomi quali Regina King, Jeremy Irons e Jean Smart. Insomma robetta da nulla. Nonostante tutte queste premesse, e forse proprio in virtù di queste, le aspettative per la buona riuscita della serie sono pari all’impulso distruttivo di quelli che i forconi li stavano già affilando.

Dopo 9 episodi, però, i detrattori sono costretti alla ritirata, sconfitti da quella che è una delle miniserie migliori della serialità contemporanea. Un frase che potrebbe suonare esagerata ma, per chi ha visto Watchmen, è la sola frase possibile. La serie tv ha fatto incetta di recensioni positive, del plauso del pubblico spopolando sui social media. L’Emmy per la miglior miniserie nel 2020 è stata solo la ciliegina sulla torta, che ha sottolineato l’impatto culturale e mediatico dello show HBO, lo stesso che, negli anni Ottanta, aveva suscitato la capostipite serie a fumetti di Alan Moore.

Watchmen
Il Settimo Cavalleria (640×360)

Dopo così tanti anni è rimasto qualcosa da raccontare? Questa la domanda alla quale, sia all’interno della narrazione che al di fuori, Watchmen tenta di rispondere. Se da un lato abbiamo quindi il proposito ambizioso di addentrarci nuovamente nell’universo creato da Alan Moore, dall’altro sorge la spontanea curiosità di sapere che cosa ne è stato dei nostri beniamini mascherati. Uno dei dubbi maggiori era, infatti, come la serie tv avrebbe gestito i personaggi originali e come Lindelof avrebbe trovato il giusto equilibrio con i nuovi. Dalle mani sapienti di un conoscitore dell’arte seriale, ecco quindi che il passato e il presente si incontrano in modo armonioso e brillante all’interno di questa storia. Tornano volti noti come Spettro di Seta II, Ozymandias e il Dottor Manhattan ma nessuno di loro è rimasto immune allo scorrere del tempo o alle conseguenze di quel terribile 2 novembre.

Ognuno di loro, seppur in maniera diversa, non è affatto lo stesso ma rimane perfettamente riconoscibile segnato da quel processo comune e noto a qualsiasi essere umano: la vita. Chi cerca di dare uno scopo alla propria esistenza, chi continua a vivere nel passato ma mente a se stessa, chi vorrebbe essere libero ma non può fuggire dalle proprie responsabilità. Non sono più protagonisti assoluti ma diventano dei ex machina per la nuova generazione.

Watchmen
Jeremy Irons e Tom Mison (640×400)

Figlia rispettosa ma anche indipendente, Watchmen è la miniserie in grado di esistere oltre i legami con il mondo di Alan Moore ma che allo stesso tempo apprende la lezione e ne fa tesoro.

L’eredità della pellicola del 2009 splende dieci anni dopo in nove episodi, targati HBO, che gestiscono abilmente personaggi, ideologia e tematiche di base. Si sorride per i continui rimandi ai fumetti DC Comics ed easter eggs che non risultano mai rozzamente buttati a caso nella narrazione ma inseriti con precisione dalle sapienti mani da orologiaio di Lindelof. Lo showrunner dimostra ancora una volta la sua profonda conoscenza dell’animo umano e la sua abilità del dissezionarlo e metterlo in scena. Tutto. Pezzo per pezzo. Senza tralasciare né le ombre né i fantasmi, così come le speranze e le gioie. Ogni cosa trova il suo senso di esistere e lo spazio giusto per essere raccontato. Come in Lost anche in Watchmen sono le persone a fare la differenza, le maschere da vigilanti cos’ì come i mostri di fumo vari ed eventuali sono solo il mezzo per raggiungere uno scopo.

Poco importa che in Lost lo showrunner abbia a disposizione sei stagioni e qui solo nove puntate, Lindelof riesce a trovare il tempo per ognuno dei suoi protagonisti, sia vecchi che nuovi. Dall’inquieta Sorella Notte al frustrato Adrian Veidt, dalla disillusa Laurie Blake al rinnovato Dottor Manhattan. Ma è quel sesto episodio, intitolato “This Extraordinary Being”, a rappresentare la summa dell’incredibile lavoro portato avanti da Lindelof.

Jovan Adepo (640×400)

Un’ora in bianco e nero, durante la quale l’intera storia di un singolo personaggio ha inizio e fine e che riesce a toccarci nel profondo contro ogni aspettativa.

La violenza in Watchmen rappresenta allora la catarsi dell’uomo e, pur assumendo diversi aspetti, rimane sempre tangibile presente. Si tratta del razzismo del settimo cavalleria che non vuole mettere da parte il vecchio mondo ma vederlo rifiorire dietro una maschera di Rorshach macchiata di sangue. Si tratta della giustizia ricercata dai perseguitati, costretti a diventare carnefici per farsi ascoltare. Si tratta dell’oppressione di un tiranno che si traveste con pelli di pecora per dare vita a un mondo su misura per la sua vanità. E si tratta anche della liberazione agognata da Adrian Veidt che si fa strada tra corpi di infiniti Adamo ed Eva per scappare alla prigionia.

Quella stessa sfaccettata violenza presente nella serie a fumetti DC Comics viene ancor più frammentata nelle motivazioni e nelle scelte dei personaggi dello show, ai cui poli opposti troviamo sempre e comunque il Dottor Manhattan e Ozymandias. Sono loro a rappresentare gli equivalenti fumettistici di eroe e villain e a donare quindi equilibrio in un mondo in cui ogni cosa è caos. Il paradiso idilliaco creato dal primo è una mera illusione, una prigionia in cui migliaia di cloni vivono per servire un maestro ideale. È la violenza divina, fredda e silenziosa alla quale il Dottor Manhattan sottomette tutti coloro che gli stanno attorno. Una violenza psicologica che si contrappone a quella maggiormente fisica di Ozymandias, conquistatore e terrorista che uccide milioni di persone per salvarne miliardi.

Watchmen
Yahya Abdul-Mateen II e Jeremy Irons (640×400)

Ed è, paradossalmente, proprio questa violenza prettamente fisica a distinguere ciò che è umano da ciò che non lo è. Sono gli esseri umani a infliggere dolore all’interno di Watchmen, né il Dottor Manhattan né tantomeno il tentacolare mostro da un’altra dimensione rivestono mai un ruolo pericoloso nella narrazione. Il primo si muove silenzioso sullo sfondo, onnipotente e onnisciente e, per questo, del tutto indifferente alle sorti di qualsiasi essere vivente, quando agisce lo fa solo perché gli è stato ordinato o in virtù di un determinismo cosmico al quale non può sottrarsi. Il secondo è la vera vittima. Gli esseri umani, d’altro canto, come Adrian, Laurie, Angela e via dicendo sono portatori attivi di violenza e carneficina, spostandosi grottescamente tra sangue e corpi martoriati mentre dal cielo, infine, cadono seppie bibliche.