Voler parlare in modo onesto di We Own This City, come fosse una miniserie qualunque tra le varie miniserie che escono ogni anno, senza considerare “la” precedente opera di Simons e Pelecanos dovrebbe forse essere la cosa più giusta da fare. Almeno per onestà intellettuale. D’altra parte rinunciare a mettere in relazione due opere dello stesso autore, ambientate poi nella stessa città, rischierebbe di passare come una imperdonabile superficialità. Come uscire da questo dilemma per affrontare dignitosamente una seria riflessione su questa miniserie? Personalmente non è stato facile trovare la giusta chiave di lettura critica fin dal primo momento in cui seppi dell’uscita di We Own This City. Questo tarlo ha continuato a rosicchiare nei meandri della mente anche mentre la guardavo e commentavo con amici quanto stavo vedendo. Inevitabilmente si finiva sempre lì: a parlare, anche e tanto, di The Wire. Perciò con buona pace di tutti oggi si parlerà di fallimento saltando avanti e indietro nel tempo tra le due serie come nei flashback con cui Simons ha deciso di raccontarci, di nuovo, una storia su questa difficile città.
Quando The Wire uscì per la prima volta su HBO quasi 20 anni fa, rivoluzionò completamente il modo in cui la televisione poteva raccontare una storia. Il dramma poliziesco di David Simon creò un mondo in cui era possibile vedere ogni singola sfaccettatura con cui fosse possibile dipingere un personaggio. Ma non solo. Per la prima volta e come poche altre nei successivi due decenni, fu in grado di dare la stesa profondità e tridimensionalità anche alle istituzioni a cui quei personaggi appartenevano. I poliziotti sono stati visti attraverso gli occhi dei criminali, i politici sono stati “portati in vita” dietro le quinte della loro realtà pubblica e anche ai senzatetto è stato dato spazio per dimostrare le loro lotte e la loro umanità. Poi giornalisti, scuole, sindacati a intrecciarsi in un labirinto di concause da cui si poteva uscire in solo modo: fallendo. Lo spettacolo era un diorama vivo e pulsante di Baltimora proiettato sul piccolo schermo. Non c’è mai stato un altro spettacolo da allora con così tanto da dire sull’ambientazione in cui si svolgeva.
Rispetto a “We Own This City“, “The Wire” aveva però una sorta di quieta rassegnazione. Sembrava, almeno per la maggior parte, una disamina più triste che arrabbiato del modo in cui i suddetti poliziotti, politici, scuole, sindacati e giornalisti hanno deluso la città di Baltimora. Le cinque stagioni della serie hanno dimostrano come il fallimento potesse aggravarsi al punto da rende impossibile ogni tipo di fuga. Quando tutto è a pezzi, distrutto, nessuno può sentire alcun altro impulso che non sia quello di badare a se stesso.
Ma “The Wire” era uno spettacolo su persone che provavano e fallivano. “We Own This City” racconta invece di persone che hanno fallito e non si preoccupano particolarmente di nient’altro che afferrare tutto ciò che possono dalle macerie che li circondano. Gli spettatori che sono rimasti affascinati dal primo dovrebbero quasi sentirsi a disagio nel guardare il secondo. “We Own This City” si concentra sugli scandali della corrotta Gun Trace Task Force del dipartimento di polizia di Baltimora e facendolo è, almeno in parte, un’accusa su come le persone che affermavano di amare “The Wire” non hanno agito in questi vent’anni in base a quell’entusiasmo. Il nuovo spettacolo di Simon è uno sguardo spietato e impassibile sui modi in cui la corruzione istituzionale ha portato Baltimora a diventare l’equivalente americano di uno Stato fallito.
Questa volta la trama si basa direttamente sugli eventi reali che hanno portato all’arresto degli uomini che facevano parte della Gun Trace Task Force del dipartimento di polizia di Baltimora, come rappresentato nell’omonimo libro del giornalista del Baltimore Sun Justin Fenton. Questo toglie alcune delle libertà creative che aveva la serie di vent’anni fa poiché molti di questi personaggi sono persone reali e quelli di The Wire invece erano immaginari. Questo ha posto dei paletti nella scrittura di Simons ma al tempo stesso gli ha dato l’opportunità di raccontarci qualcosa di nuovo: non solo ciò che è successo ma soprattutto il come. La maggior parte degli spettacoli si sarebbe più facilmente concentrato sulla brutalità di ciò che è stato fatto, piuttosto che sul perché. La cosa più importante per lui, invece, è catturare l’umanità di ogni singolo personaggio.
In quest’ottica è Sean M. Suiter (interpretato da Jamie Hector) che funge da cuore della serie. È una figura tragica, un uomo che vuole davvero fare del bene mentre è intrappolato nella rete di corruzione di Jenkins (Jonathan Edward “Jon” Bernthal) come un uccellino risucchiato da un uragano. Hector ha definito Suiter il “Michael Jordan dei detective della omicidi“, notando la sua attenzione ai piccoli dettagli durante le indagini sui crimini e il suo impegno nell’aiutare i giovani agenti. Ma anche lui ha commesso errori. “Spero che attraverso di lui le persone possano vedere un certo livello di redenzione“, dice Hector. Anche se “Forse in passato è successo qualcosa, ma non ci convivrà e continuerà a seppellirsi in un buco di oscurità.“
Dalle parole degli autori tutti coloro che sono stati coinvolti nel progetto hanno la convinzione che l’America, in questo periodo storico dove questa serie si interseca prepotentemente con la realtà, si senta allo stesso modo. “Se guardi questo spettacolo in modo obiettivo e ci pensi davvero, arrivi alla conclusione che il Paese sarebbe molto migliore se questi sistemi fossero migliorati“, afferma Pelecanos. “È meno importante che questi otto poliziotti fossero corrotti rispetto al fatto che è il Sistema che ha permesso loro di essere corrotti”.
Who own this city? Chi possiede questa città? Sono i poliziotti o i criminali? O la linea è così consumata e sbiadita che non è più possibile dirlo? We Own This City potrebbe quindi per certi versi essere un successore spirituale di The Wire, ma in realtà è uno spettacolo fondamentalmente diverso. Mentre The Wire è stata un’odissea labirintica attraverso tutte le strutture e istituzioni, sia personali che politiche, We Own This City fornisce un colpo secco e breve ai fallimenti sociali più gravi dell’America di oggi. Un’accusa fatalistica contro l’immutabile e inevitabile degrado che il Sistema può raggiungere e contro tutti coloro che agiscono per favorire con la loro azione o indifferenza questo drammatico fallimento.