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Welcome to Wrexham riscrive le regole dello storytelling sportivo

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Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla prima stagione di Welcome to Wrexham

Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio.

Così José Mourinho, uno che di calcio ha sempre dimostrato di saperne parecchio, aveva dato alcuni anni fa un’idea chiara di cosa significhi davvero vivere e interpretare la complessa materia di un gioco che coinvolge miliardi di appassionati. Non solo sport, non solo un gioco. Non solo tecnica e tattica, applicate scientificamente dagli stregoni del pallone e dagli atleti più talentuosi. Non solo il rettangolo verde, al di là del quale si sublima la narrazione più vivida di un vero e proprio fenomeno socioculturale che rappresenta, spesso, la sintesi più onesta del senso di comunità più o meno vaste. Se si parla del Vecchio Continente e, in particolar modo, della Gran Bretagna, niente più del calcio sigilla l’identità di popoli uniti da una passione che assume i contorni di una ragione di vita. Non è sterile retorica né un’irrealistica enfatizzazione: è davvero così, senza esagerare. Ed è ancora più così se si attraversano i confini delle grandi città e si respirano le intense atmosfere della provincia più profonda dell’Inghilterra, della Scozia o del Galles, in cui il calcio si appropria di una centralità ancora più marcata e da vita a racconti apparentemente inspiegabili per chi non li vive in prima persona.

Qualcuno, però, ci ha provato. Senza sapere niente di calcio, a chi di calcio non sa niente e non ha la minima idea di quali oscure regole definiscano un fuorigioco. Ma anche a chi pensa di saper tutto di calcio e ha scoperto i limiti delle proprie conoscenze in un angolo sperduto nel nord del Galles, alle porte della piccola – ma non certo anonima – Wrexham. Attraverso due statunitensi, due grandi attori che in quel contesto sembravano esser destinati a non essere altro che due arroganti pesci fuor d’acqua, audaci nel dar vita a una bellissima docuserie e raccontare una grande storia. Una grande storia di sport, nonostante non si tratti dell’epica cronaca di una straordinaria impresa calcistica. Una storia paradossalmente americana, nello sviluppo di un intreccio associabile a quello di un film pieno di colpi a effetto partoriti da una mente brillante. Sinceramente britannica. Fieramente gallese, là dove il calcio è nato e riscrive ogni giorno la sua fondamentale eredità. Un fantastico esempio di storytelling sportivo, per certi versi persino rivoluzionario. Grazie all’amore viscerale di una piccola città e la stravagante avventura di Rob McElhenney e Ryan Reynolds, i volti di punta – ma non i veri protagonisti – di Welcome to Wrexham.

Prodotta da FX e distribuita in Italia da Disney Plus, la suggestiva docuserie è composta da 18 episodi da mezzora circa e si pone l’obiettivo di narrare una follia: nel 2020, infatti, i due divi hollywoodiani si sono messi in testa di entrare nel mondo di uno sport avevano fin lì ignorato le regole più essenziali, senza farlo dalla porta principale. Nonostante abbiano a disposizione delle risorse economiche importanti, non sbarcano infatti in un campionato di primo livello, bensì nella quinta divisione inglese. L’ultima frontiera del professionismo, l’orizzonte che accompagna verso il Purgatorio del dilettantismo: la National League. Acquistano infatti il Wrexham, una nobile decaduta che marcisce da oltre un decennio in una lega ben distante dal blasone che accompagna la terza squadra più vecchia del mondo, fondata nel lontano 1864, e lo stadio internazionale più antico del pianeta, il Racecourse Ground.

In un contesto del genere, sembra impossibile inserire armonicamente due come Rob McElhenney e Ryan Reynolds, accolti all’inizio con una certa diffidenza dagli esigenti tifosi di una squadra che sogna da anni di potersi aggrappare a una proprietà solida e ambiziosa. Sembra la storia di due sbruffoni, sbarcati in provincia per una particolare operazione di marketing e del tutto disinteressati alla preservazione della forte identità di un club dalle importantissime radici. La realtà, però, è del tutto diversa: i due attori si ambientano alla grande nella realtà gallese, la scoprono, la vivono in ogni modo possibile e la valorizzano con importanti investimenti e un progetto sportivo di larghe vedute. Un progetto sostenibile, rispettoso delle tradizioni portate da un club del genere e mirato alla restituzione dell’entusiasmo a un grande gruppo di tifosi, scottati da decenni di fragorosi tonfi, e di un palcoscenico all’altezza del nome che portano.

Welcome to Wrexham, dal canto suo, non distorce i fatti, accompagna gli eventi con eclettismo e rende giustizia fino in fondo alla massima mourinhana: il calcio, infatti, non è mai solo calcio.

Il calcio, invece, catalizza gli struggenti racconti e le variegate prospettive di un popolo che vive di sport, andando ben oltre i novanta minuti in cui si batte il campo da gioco del Racecourse Ground, finendo per trasformare Reynolds e McElhenney in due credibili gallesi d’adozione che si lasciano coinvolgere dalla situazione ben più di quanto avessero pensato all’inizio, tra impreviste difficoltà gestionali e un entusiasmo che li porta a dedicarsi anima e corpo alla piccola grande realtà britannica.

Welcome to Wrexham si prende quindi parecchio sul serio, con una spiccata ironia che impernia il racconto e un approccio immersivo che non punta mai sugli usuali pattern a cui ci aveva abituato lo storytelling sportivo degli ultimi anni.

Welcome to Wrexham sembra volersi concentrare solo in parte sul surreale andamento della squadra in campionato, la cronaca degli incontri e la costruzione di una narrazione sognante e retoricamente ispirata funzionale all’illustrazione di uno sport che per gli statunitensi è ancora piuttosto sconosciuto, ma preferisce divagare. Esporre per esempio la nascita di una bella bromance – quella che cresce tra i due attori – o presentare – a modo suo – la storia del Galles. Solo chi saprà vivere fino in fondo la docuserie saprà comprendere il senso di alcune scelte particolari, di rottura rispetto al passato, e arrivare alla conclusione auspicata dagli autori: Welcome to Wrexham è, prima di tutto, una storia che mette al centro della narrazione Wrexham, la città. I suoi cittadini, i veri divi della situazione. E un’esperienza collettiva che valica i confini del tempo per ritrovarsi sempre uguale a se stessa, a cavallo tra tre secoli. Mentre un pallone corre nella medesima direzione fin dall’alba in cui questo straordinario sport è stato concepito per la prima volta.

Attraverso questo meccanismo, il calcio diventa sfondo. Talvolta persino contorno. Senza però esser mai messo in secondo piano: le divagazioni, infatti, finiscono per cogliere l’essenza più profonda di questo sport. Ed è interessante allo stesso tempo percepire il crescente coinvolgimento dei due attori, divertenti e divertiti nell’improvvisarsi mecenati in un mondo che non conoscono minimamente. Non è un caso, d’altronde, che Welcome to Wrexham sia stata associata a più riprese a una delle migliori serie tv degli ultimi anni, la massima espressione di uno storytelling sportivo di fantasia che spesso aveva faticato in passato nell’imporsi in televisione: Ted Lasso. Il parallelismo tra le due produzioni è centrato e intriga l’idea che un apparente racconto fantascientifico, in cui un allenatore di football americano si ritrova ad allenare una squadra di calcio d’altissimo livello, abbia poi trovato una sponda di questo tipo in una realtà per certi versi persino simile. Simile soprattutto sul piano emotivo.

In un mondo, quello dello storytelling sportivo, che sembra rivolgersi sempre più anche a chi non è interessato affatto allo sport, Welcome to Wrexham si inserisce alla perfezione con audacia, leggerezza e grande equilibrio nell’incasellare tessere di un mosaico in cui sembra spesso di esser spesso fuori tema. Grazie al carisma di due cavalli di razza, abili nel mettersi al servizio di una comunità che non sapeva di aver bisogno di due come loro. E alla personalità unica di un popolo poco abituato alle grandi platee, sospeso da sempre tra la sofferenza e la speranza. Una speranza finalmente ritrovata, in cui il risultato sportivo finisce per essere quasi superfluo e una promozione viene ottenuta al di là di quello che decreteranno le classifiche di fine stagione. Una grande storia, da vivere senza frenesia e con lo spirito di chi non ha mai capito perché il calcio sia uno degli sport più popolari del mondo. Fino a vivere un’emozione a suo modo universale, figlia di un’esperienza peculiare radicata nel substrato di uno straordinario microcosmo. Un’esperienza vorticosa, complessa e del tutto imprevedibile, sconsigliata ai cuori deboli. Al termine della visione sì, si inizierà a capire qualcosa di calcio. Sul serio. Alla faccia del fuorigioco e di chi pensa sia una scienza esatta. E di chi ha ormai dimenticato di viverlo con lo spirito pionieristico di un bambino.

Antonio Casu