«Bring yourselves back online.
Tornate in linea.»
Posto in un luogo fuori dalla nostra mente, c’è un mondo diverso.
Qualcuno lo ha chiamato “mondo delle idee”, iperuranio, idealizzando la propria visione della perfezione e circoscrivendola oltre uno spazio indefinito che il corpo non è tenuto a percorrere.
Maeve scopre invece che quel mondo è distante solo una decisa camminata oltre il confine, e che le idee che vi risiedono non sono affatto perfette, bensì caduche quanto quelle che dominano il proprio.
Giusto il millesimo di secondo che intercede la ragione e provoca la sorpresa, poi Maeve è nuovamente compassata, fredda come la lama che ora le punta il viso. Quel nuovo mondo le sembra già vecchio quanto le migliaia di vite che ha vissuto, cucite una dopo l’altra.
E comprende pian piano che, in fondo, un iperuranio nemmeno esiste.
Quello che immaginiamo è solo il maldestro gioco di un uomo con poche idee.
Il demiurgo proposto da questo quinto episodio di Westworld è un imputato, messo a confronto col suo negligente operato e affidato alla logorrea della banale ripetitività.
Lee Sizemore lo riconosce, e nel farlo diventa non solo l’espediente comico che nella prima stagione abbiamo fatto leggermente fatica ad apprezzare, ma acuisce anche il delizioso gioco metanarrativo, quasi provocando lo spettatore in quanto tale e alludendo alla sua indolenza nell’accettare ricorrenze e schemi narrativi talvolta troppo uguali tra loro.
Lo sceneggiatore della Delos intrattiene con una critica all’intrattenimento.
È proprio sul concetto di intrattenimento che sembra concentrarsi l’intero episodio, sul piano stilistico prima ancora che concettuale: la danza di Akane è la chiusura di palcoscenico, il sipario che cala su cinquanta minuti di estetica orientale, di architetture melodiche che fondono il controverso piano a rullo (stavolta insanguinato) e le acute corde del koto giapponese.
I due stereotipi si abbracciano alla perfezione, andando a sugellare quello che è un connubio consustanziale, un corteggiamento tra mondi e culture che esiste da tempo immemore: quello tra Far West e Sol Levate. Una cultura, quella del Far West, che deve tanto al periodo Edo al quale fa riferimento lo ShogunWorld.
Tanto quanto Jonathan Nolan deve alla cinematografia di Kurosawa e (più recentemente) Kitano, nello sviluppo di questo piacevole esercizio stilistico fatto di rallenty e riprese a 360 gradi, il cui risultato non può non fare indirettamente da eco anche al “gore” tarantiniano (ne è quasi manifesto lo stesso rullo insanguinato che vediamo a inizio puntata).
ShogunWorld diventa così la parallela coesistenza del proprio alter ego, il quale da ideale diventa concreto, e che non riusciamo ad accettare come uguale a noi, al punto da vederlo diverso.
È proprio questa “percezione del sé”, la capacità di essere umani, che viene esposta con ilarità nel rifiuto di Hector ad accettare la sua copia Musashi.
Il divagare della mente si espande di fronte alla necessità di distinguere se stessi dagli altri. Quasi come un vedersi diversi in foto, e incappare in un bug percettivo.
Un bug che ha fatto da propulsore di eventi (negativi?), trainando la narrativa fuori da quei binari che ormai non sono nemmeno più una metafora, ma l’urlo disperato di Peter Abernathy («Devo raggiungere il treno»). La “necessità di tornare sui binari” potrebbe essere una chiave per identificare alcuni dei personaggi più criptici della trama, quali i membri della Ghost Nation.
Questo aspetto, misto al disvelamento di una nuova struttura narrativa basata sul tema del doppio, offre la possibilità di andare a speculare sull’associazione dei possibili corrispettivi tra il mondo di Westworld e quello di ShogunWorld.
Se è vero che alcuni dei personaggi principali sono già stati espressamente dichiarati come copie di altri, resta da individuare l’associazione che può esserci tra molti degli altri personaggi chiave.
L’ultimo atteggiamento singolare della Ghost Nation, nello scorso episodio, lascia pensare che questi possano nascondere intenti resi appositamente ambigui dalla sceneggiatura. All’incontro tra Stubbs e Grace, entrambi rapiti e tenuti ostaggi dagli indigeni, il primo afferma che tutti gli umani vengono risparmiati, a discapito degli host.
Tali situazioni ambigue si ripresentano, complessivamente, in altre due circostanze: nella prima stagione, durante quello che pare essere il rapimento di Stubbs ma che, capovolgendo il giudizio, può analogamente sembrare un’operazione di salvataggio; o nella scena che li vede intenti, anche in questo caso, a “rapire” Lee Sizemore.
Quella che è la presentazione ostica del personaggio potrebbe essere un depistaggio, e dietro la Ghost Nation potrebbe nascondersi una vera e propria “squadra di soccorso” della Delos intenta a riequilibrare la narrativa, riconducendo gli eventi al (non) naturale sviluppo preposto dalle leggi del parco.
La ragione per cui potrebbero volere Lee Sizemore non sarebbe appunto fargli del male (lo dimostra il fatto che lo stesso Stubbs sia ancora vivo e, si presume, umano), bensì prelevarlo dalla prigionia di Maeve ed Hector.
Tale ipotesi potrebbe portare all’idea che la Ghost Nation sia il corrispettivo in Westworld dei ninja (l’assonanza semantica tra “ghost”, fantasma, e “ninja”, termine associato ai concetti di furtività e invisibilità, è piuttosto significativa).
L’affermazione di Lee Sizemore che accompagna la comparsa dei ninja desta particolari sospetti, e allude a una non canonicità dei guerrieri nella trama, in maniera più o meno analoga agli interventi degli indigeni: «Ninja? Non dovrebbero esserci».
L’irruzione dei ninja assumerebbe quindi un significato molto più esteso, e coinciderebbe appunto con un intervento della Delos per ricondurre la narrativa sui “giusti” binari rapendo Sakura, dopo la rottura del loop causata dal rifiuto di Akane (rottura che, a sua volta, sarebbe stata provocata dalla presenza anomala della sua copia Maeve all’interno della trama).
Il punto apicale di questo confronto tra doppi, divisione bicamerale del mondo, risiede in una scena brevissima ma di un’intensità perpetua.
La camera è disattenta quando Clementine, con uno sguardo angoscioso che esprime la non necessità dell’uomo, realizza di essere di fronte al rimpiazzo di sé.
Qui perfino l’inquadratura sembra esprimere noncuranza e focalizzarsi in ritardo sul dolore di un personaggio che perfino gli host non riconoscono più come una vera identità.
Alla solitudine, Clementine somma la non irripetibilità della sua persona, e annega nelle stagnanti e macchinose parole di chi ora occupa il suo posto, e che risuonano più forti del suo indeciso e coincidente sussurro.
Clementine non vuole smarrire quella se stessa a due passi da lei e la fissa come a tenerla stretta nella mente, mentre viene portata via.
È allo stesso modo che Akane non vuole lasciar andare Sakura, recitando un parossismo che rompe gli argini di ciò per cui è stata programmata.
Dando adito a quell’istante prima della scelta che ti dice di cambiare idea, ma che non è sufficiente a confutare il dubbio che anche quella non sia una scelta indipendente.
Così fa Maeve con sua figlia, provando a tenere drammaticamente stretto ciò che ama e a non allentare la presa per niente al mondo.
E se i mondi sono due, allora Maeve ha qualcun altro da non permettersi di perdere.
Lo scopre quando trova una nuova sé in Akane, e non vuole lasciarla andare.
Per questo è ironico che “La Danza di Akane”, in giapponese, pare voler dire proprio “Akane no, mai.”
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Un saluto agli amici di Westworld Italia e Westworld – Italia