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Westworld – Arnold potrebbe rappresentare il contrappasso di Ford

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«Bring yourselves back online.»
«Tornate in linea.»

Ci si aspetta un equilibrio naturale che sovrasta le nostra volontà, il più delle volte.
Molte di quelle volte, la sfiducia sfocia dalle tonde estremità delle nostre forme per l’eccessiva quiescenza di un flusso sperato ma di consueto assente.
Quelle altre, sporadiche e pertanto torchiate volte, quell’equilibrio lo generiamo noi con l’ingenua ed inconsapevole genitorialità putativa di chi si illude di aver assistito alla giustizia cosmica che impone i suoi dettami.
A Westworld tutto ciò non è così diverso.
La verità prende posto nel coro per suggerire con aerea orecchiabilità che le conseguenze di un’azione sono una logica inopinabile, e che ciò che viene riscosso è frutto di un’azione iniziata, circumnavigata sul suo anello planetario di variabili consequenziali, e conclusa solo ed esclusivamente da noi; aprendo noi stessi un’udienza per le nostre colpe, disegnando un segmento e creandone così, idealmente, quello antistante.
Facendo un passo, e creando il nostro contrappasso.

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Il quinto episodio di Westworld si apre con un racconto; il racconto di una storia di Ford risalente all’infanzia, che lambisce la sua attuale posizione fino a divenire, man mano sino al meditativo finale, una vera e propria metafora studiata per la sua situazione e quella dei suoi “clienti” (e di quì a poco, anche per alcuni dei “suoi” host, oseremmo dire): la ricerca di uno scopo da temere proprio per quell’agognata riuscita che ne depotenzia il desiderio; il principio di Lacan secondo il quale nel momento in cui otteniamo ciò che desideriamo, non possiamo più volerlo.
Un desiderio che necessita di avere oggetti eternamente assenti.
Nel caso di Ford, quello smodato annaspare “tra i rottami” che somiglia alla ricerca senza fine di una figura che potrebbe ormai esistere solo come ricordo strumentalizzato.
La ricerca di Arnold all’interno di quel Labirinto che, come abbiamo ipotizzato nella precedente analisi, è un delucidante riferimento all’intera cosmologia dell’I’itoi (la quale ci offre indizi su ciò che potrebbe accadere a breve nell’Universo di Westworld).
Il giro di boa di Westworld ha annullato la gravità per risollevarci e farci trasportare dalle carezzanti folate di vento a quel punto di inizio che aveva caratterizzato l’atmosfera di Westworld.
Un incrocio tra anima e corpo della serie si è manifestato con questo quinto episodio, il quale ha nuovamente suturato quella dicotomia tra filosofia ed azione funti da patinato biglietto da visita della serie.

 

LA VITA COME PUNIZIONE AL CICLO DI MORTE: Il Contrappasso in Westworld
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Questo episodio è stato una matriosca di misteri.
Differentemente dai precedenti appuntamenti, questo ci ha portati ad avere la sensazione che qualcosa si snodasse progressivamente; tutto per riportarci, in realtà, a quesiti ancor più fitti ad ogni parvenza di chiarimento.
Scopriamo da subito che quella di Logan nell’azienda di famiglia potrebbe essere una posizione ad interim, e che la teoria della doppia timeline potrebbe essere più fondata di quanto pensiamo.
Una volta giunti nella “zona declassata” di Westworld, Logan avvia il suo pettegolezzo nel quale racconta la carenza di fondi della cooperazione del parco e l’idea da parte sua e della sua famiglia di entrare nel progetto finanziandolo.
Parla di uno dei fondatori e del suo presunto suicidio, specificando che, nonostante le accurate ricerche, non si ha modo di conoscere la sua identità.
Che il fondatore a cui faccia riferimento possa essere Arnold è chiaro, il vero indizio chiarificatore viene rilasciato per una backstory differente, ossia quella dell’Uomo in Nero.
In un dialogo tra Logan e William all’interno del “palazzo del piacere”, nel quale sostano a spese di Lawrence come gesto di riconoscimento per la “commissione” portata a termine, viene rimarcata la subordinazione di quest’ultimo nei confronti del primo e specificata la sua posizione da “vice” nell’azienda.
Se, con gli sviluppi di trama, Logan dovesse venire in qualche modo a mancare, sarebbe del tutto plausibile e gerarchicamente combaciante il fatto che William prenda il suo posto nell’azienda per assumere potere decisionale.
Il che lo porterebbe a continuare il lavoro di finanziamento nel parco a cui aveva soltanto accennato Logan.
Tutto ciò andrebbe ad incanalarsi nella strettoia di quell’imbuto che spinge vertiginosamente verso la teoria che vede William e l’Uomo in Nero essere la stessa persona (teoria su cui avevamo già lavorato dopo il secondo episodio) poiché, come già sappiamo, lo stesso Uomo in Nero ha appunto affermato di aver risollevato il “progetto Westworld” in passato.
I fattori probanti che tendiamo a cercare, a conferma di questa teoria, sono quelli in grado di dare una collocazione temporale alla storyline di William e Logan, per cercare di intuire se si trovino effettivamente nel passato.
Oltre a quelli già rilevati negli scorsi episodi (i dettagli estetici del treno che porta a Westworld, o l’entrata stessa della cittadina, che differiscono da quelli osservati durante le sequenze dell’Uomo in Nero), c’è un elemento sospeso che potrebbe rappresentare l’evidenza cruciale: la materia di cui sono fatti gli host.
Nell’ultimo episodio, l’Uomo in Nero racconta che gli host, alla sua prima visita al parco, erano fatti di materiale meccanico pregiato e decisamente più costoso che, nella sua rudimentalità, offriva una eterea perfezione alle fattezze di quelle macchine dall’immateriale ma percepibile cuore.
Nelle sequenze che mostrano William, non abbiamo ancora avuto modo di accertarci della materia di cui sono composti gli host.
Insomma, non ne è stato ancora “aperto” nessuno.
Uno dei contributi di William (in questo caso, quindi, dell’Uomo in Nero) per risollevare economicamente il progetto potrebbe essere stato proprio questo: tramite l’agenzia che “salva vite” della quale avrebbe preso potere decisionale grazie all’assenza di Logan, potrebbe aver messo a disposizione il materiale organico di scarto dei propri “clienti” al fine di essere utilizzato nella costruzione degli host.
La munificenza e trasparenza d’animo di William, quei sani principi che tramutano in colpevole negligenza se adoperati in un lavoro che richiede cinismo, diventano il carattere imputabile di un uomo che, secondo le despote leggi del contrappasso, è destinato a compiere ciò che ripudia: il lavoro in origine cominciato da Logan (il cui sorriso rivolto al momento in cui, seppur a suo discapito, William “sboccia” è emblematico dell’invertita e contaminante catarsi del suo collega); il finanziamento del parco.

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Un altro dubbio si è inanellato nella catena di quesiti, e scaturisce proprio dalla sequenza che vede l’Uomo in Nero parlare con Teddy dopo aver “rifornito” la sua carcassa del sangue necessario a rianimarlo, sacrificando Lawrence.
Nel momento in cui vede arrivare il bambino (che abbiamo in passato identificato come possibile figura giovanile di Ford), l’Uomo in Nero sembra mutare espressione e cadere in una catalessi riflessiva che lo porta ad apprendere che la “trama” potrebbe essere stata stravolta, notando qualche incongruenza a noi ancora ignota. Induce il bambino ad allontanarsi e, come se avesse appreso di dover cambiare obiettivo, sacrifica Lawrence per portare con sé Teddy.
Come se, in qualche modo, avesse intuito che la trama di Wyatt ed il suo esercito di indigeni fosse utile alla sua causa, tanto da rendere ormai obsoleta la trama di gioco di Lawrence (ossia quella vecchia, ormai 30 anni, del boss criminale El Lazo).
Quasi come se la figura del bambino fosse una premonizione della venuta di Ford, avviene il faccia a faccia tanto atteso.
La rudezza dell’Uomo in Nero affronta la vezzosità di Ford in un anteporsi di identità che sembrano nascondere intenti opposti a quelli che esternano i propri modi.
Uno scontro verbale che ha il retrogusto di dualismo religioso, con Teddy (il cui cognome, pronunciato da Ford prima di andar via, è Flood, ossia “alluvione”, e funge da ennesimo riferimento biblico) a rappresentare il “testimone umano” dello scontro divino esplicitato nel Nuovo Testamento.

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La retorica del contrappasso è impressa a fuoco nelle dinamiche dell’episodio.
Non solo il metaforico ritrovo di William e Dolores nel covo di voluttuosità e peccaminosa passione come simbolica punizione al loro astenersi dagli impulsi che li legano l’uno all’altro istintivamente (che, poi, esploderanno in un prevedibile bacio a fine episodio), bensì anche e soprattutto la sotto-trama della meretrice Maeve.
Ella sa che c’è un solo modo per scoprire la verità, e questo è ritrovare la morte più e più volte nella speranza di percepire la scintilla generata dall’incrocio metallico dei suoi strati di subconscio, che la porterebbe a ricordare.
Come già ipotizzato, Maeve avrebbe cercato ciclicamente la morte nella speranza di ricordare, e la sua assidua presenza nella sala di rigenerazione degli host è sospettosa e sintomatica di questo sviluppo.
Maeve deve aver lasciato qualche appunto a sé stessa (con quel modus operandi potenzialmente e, se così fosse, genialmente ripreso dalla sceneggiatura di “Memento” dello stesso Nolan) per ricordare il suo piano, e continuare a morire per cercare quella vita che crede celata ed irraggiungibile poiché immacolata ed eterea.
La verità è che, da contrappasso, quella stessa vita sarà la punizione di una morte ciclica deliberatamente optata.

 

L’INNOCENZA DI UNO SGUARDO STUPITO: Eyes wide shut
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Nolan non ha smarrito il suo morbido orsacchiotto, il rassicurante oggetto sostitutivo al quale è legato da sempre ed ispirazione del suo lavoro.
Non ha perso la traccia sul terreno che sembrava indicare il cammino delle attitudini che gli abbiamo visto percorrere sin dal primo episodio.
Insomma, Nolan non ha dimenticato le influenze, e se il bianco denso e setoso del latte che contrasta il rosso del sangue ci hanno riportati all’ultraviolence di “Arancia Meccanica”, con il quinto episodio veniamo catapultati tra le pareti ornate di una loggia già vista nell’impero del dionisiaco istinto sessuale di Kubrick con “Eyes Wide Shut”.
Come ennesima metafora del percorso di penitenza imposto dal contrappasso, come già detto, William e Dolores si ritrovano immersi in uno scenario quasi onirico per quanto eccedente nella farraginosa ostentazione sessuale.
Si destreggiano nella folla orgiastica che è protagonista di quel baccanale eccessivo perfino per le terre di Westworld, tanto da esservi confinate alle più rinnegate periferie.
Uno scenario dal sentore quasi celebrativo e di tributo alla visione kubrickiana, già presente concettualmente nell’idea di un parco divertimenti con lo scopo terrigeno di soddisfare gli impulsi violenti e sessuali, ma che aspettava di esplodere ancor più nel contesto visivo.
Quale contesto migliore se non l’opulento assetto visivo di stampo kubrickiano per il ritorno di quel sottile lavoro simbolico della psicologia cromatica a cui abbiamo già assistito in qualche precedente episodio?
Tra il bianco innocente del cappello di William ed il nero colpevole di quello di Logan, si frappone quello grigio di Dolores: l’uscita dai binari prestabiliti, la “via di mezzo” tra ciò che si deve e ciò che si vuole essere.

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In questo luogo di disinibizione, Dolores trova la sua ennesima digressione dai binari del determinismo: dopo essersi lasciata andare all’impulso sentimentale, concedendo il suo bacio a William, afferra la guancetta della sua pistola e compie il primo annaspante respiro al limite tra il soffocamento e l’emersione, uccidendo i Confederados.
Nel prosieguo della scena, Dolores è sul treno ed osserva il simbolo sulla bara.
Osserva il Labirinto.
Il quel momento, El Lazo si presenterà a William come “Lawrence” per la prima volta (indizio che riporta, forse, alla ragione per cui l’Uomo in Nero definisca Lawrence un suo vecchio amico, se il misterioso avventuriero e William dovessero rivelarsi la stessa persona).
Immediatamente dopo, questa timeline si stacca per lasciar posto ad un’altra linea temporale (probabilmente quella che ritrae il presente), con Dolores sola sul treno, ormai consapevole del tragitto da percorrere senza ausilio alcuno, nel viaggio alla ricerca del “Man in the Maze”: alla ricerca di Arnold (rinchiuso nel Labirinto, come da leggenda I’itoi).

 

Nell’universo di Westworld, nel campionario che è quel paesaggio creato per essere solo e fermo nel tempo, la solitudine è una condizione imprescindibile malgrado l’ostentazione che ne nasconde i sintomi.
Anche Dolores, che ne è finalmente consapevole, si trova sola; in viaggio tra il cammino della memoria e quello ruvido e tangibile del presente.
Qui, in un percorso provvisto di carrucole, Dolores non ha più bisogno di preoccuparsi di nessuno, perché “gli altri” le sono ormai utili quanto gli spartiti per quel piano a rullo che sa già che melodia suonare.
Dolores ha compreso che in un lungo percorso se si è soli non si hanno nemici da affrontare.

Non ha più motivo di temere quella condizione tanto comune. 
Dopotutto la solitudine non è uno “stato”.
Semmai è un mondo intero: quello di Westworld.

Un saluto agli amici di Westworld Italia e Westworld – Italia!