Ormai ci siamo abituati: nel crudele panorama della serialità televisiva tutto è sfuggente, l’abitudine viene tramortita dal glaciale tema della fine, e come da consuetudine siamo immediatamente alla ricerca di un oggetto sostitutivo.
La HBO sembra aver trovato il suo, con “Westworld“.
Potrebbe essere presto per dirlo, ma la nostra bilancia è temeraria e non teme l’integrità dei propri piatti, esponendosi deliberatamente e pendendo dal lato che sussurra al capolavoro.
Senza alcuna riserva, il merito è riconosciuto al caravanserraglio di talenti addetti a gestazione e parto di questo nuovo prodotto, che ambisce al potere ereditario di un “trono” che a breve resterà incustodito con l’inesorabile fine delle già intramontabili “cronache del ghiaccio e del fuoco“.
Il cast fa da eco ad un team di ideazione dal prelibato solletico sensoriale: Jonathan Nolan (insieme con sua moglie Lisa Joy), fratello del più celebre Christopher Nolan, per una sceneggiatura che lascia già trasparire i tratti meta-telefilmici che caratterizzano trame già trattate in lavori cinematografici quali “Interstellar” (o come “Inception“, seppure senza la sua mano, a conferma del fatto che la ricorrenza dei temi è quasi una questione genetica) e J.J.Abrams, leader della lotta tra estremi (se non è un capolavoro, deve per forza essere un flop colossale), con la sua Bad Robot alla produzione.
La serie omaggia fedelmente quello che è da molti considerato un cult del genere western e precursore del tema che tratta l’insurrezione delle macchine contro l’uomo: “Il mondo dei robot” di Michael Crichton datato 1973.
“Westworld” è iniziato, e l’ha fatto con permanente insidia, spolpando il concetto di panteismo e plasmandolo a suo modo, raccogliendo e smistando prezioso concime dal passato per riporlo in enormi bacini di sterile introspezione umana del presente.
Il tutto per poterci interrogare su un futuro distopico (dagli elementi che ricordano molto la poetica di Aldous Huxley) concretamente lontano anni luce, ma sempre più vicino a livello concettuale.
La sigla, minuziosamente curata per suggestionare (da Ramin Djawadi, ideatore della sigla di “Game of Thrones”), disegna i tratti degli elementi artefatti, immersi in un mondo fatto di fittizi confini e realtà mai contingenti, inoltrandoci a pieno nel concetto di determinismo.
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La sceneggiatura di “Westworld” gioca col tema del meta-testo: alcuni scambi di battute che avvengono nell’avulsa cittadina ci appaiono scarni, vuoti, addirittura ridicoli.
La sceneggiatura “a Westworld” è banale, ed a deciderlo è una sceneggiatura brillante;
ci rendiamo conto del perché abbiamo assistito a scambi di battute dalla surreale banalità quando, insidiati nello scuro e pungolante laboratorio del Dottor Ford, assistiamo alle critiche rivolte a Lee, lo “sceneggiatore” delle story-line che dirigono le pedine della cittadina, ed alla sua apparente inettitudine.
Gli accurati riferimenti shakespeariani ricalcano il concetto di introspezione e la necessità di interrogarsi sulla vera natura dell’animo umano; piccoli punti di luce posizionati al punto giusto, per disporre la giusta diffusione di luce in un torvo e buio scenario di caduca ostentazione.
Tra queste finezze c’è, quasi impercettibile, la lieve ed accomodante linea strumentale adattata al pianoforte del capolavoro “Black Hole Sun” dei Soundgarden, in una scena all’interno dell’azzeccatissimo scenario western proposto dalla cittadina del vizio.
La sublimazione del potere: l’uomo che diventa Dio.
– “Hai mai fatto del male ad un essere vivente, Dolores?”
– “No.“
Una serie di domande rivolte a quello che si rivelerà essere il più longevo ed esemplare prototipo mai esistito a Westworld, si alternano a sequenze di un arrivo nella medesima “cittadina”.
Si tratta di Teddy, il cui approdo nella “terra piena di virtù ed opportunità” viene raccontato quasi come la realizzazione del famigerato “sogno americano”.
Viene subito svelato il “point of view” che, diversamente dal film, si sposta proprio sull’androide Dolores, interpretato da una superba Evan Rachel Wood.
La fotografia è sublime e la regia è perfetta, e se non lo si era percepito semplicemente dalla sigla, a confermarcelo sono i primi dieci minuti di materiale visivo che, senza il timore di risultare copiosamente ripetitivo, si ripeterà analogamente in sequenze riavviate per spiegare l’ineluttabilità del determinismo, evidenziando che l’inottemperanza alle proprie dinamiche prescritte genera il “caso” che scompone le proprie stesse lettere con entropica forza per formare il “caos“, ma che quello stesso caos può mischiare un mazzo di carte nel mezzo, senza però mai spostarne la prima e l’ultima.
Un caos che il Dottor Robert Ford (un sempre accademico ed impeccabile Anthony Hopkins) sembra ammettere di aver generato con l’innesto, nella programmazione, delle “fantasie“, giustificando l’errore con filosofica trama volta alle finalità, dichiarando che “l’intera evoluzione umana è costruita sul concetto di errore”.
Dettagli come le stesse “fantasie” vengono apostrofati con cenni di scientifica natura, e come un vellutato letto accomoda un “lungo sonno senza sogni“, così la citazione di Bernard in un momento di disappunto della collega (“E’ affascinante. Quando ti arrabbi, il tuo sopracciglio assume una forma particolare. Posso registrarlo?“) sembra ammorbidire con un leggero tratto di matita le tematiche di prossemica, cinesica e linguaggio del corpo.
Senza alcuna sedicente ed inopportuna digressione. Con umile adeguatezza.
Con particolari malcelati ma mai invasivi, ci sembra di assistere ad un’orchestra di ingranaggi perfettamente oliati, consapevoli in ogni sfaccettatura del lavoro che si sta svolgendo.
Per questo stesso motivo, il già citato tema del panteismo riadattato, in cui il soprasensibile che muove i fili somatizza nell’uomo creatore di macchine che si interrogano sull’esistenza del “proprio Dio” tanto quanto l’uomo stesso è giunto a fare, non ci appare come lo sberleffo di una pozza d’acqua nel deserto il cui gusto è corrotto dalla salsedine dei sotto-temi mal trattati.
L’uomo che diviene verosimilmente divinità è, dunque, la visione panteista dello spettatore assoggettata agli “ignari host” di Westworld.
Surrogato di subconscio: la teoria del bianco e del rosso.
Nella sfida fra il voler determinare chi siamo e come ci piacerebbe essere, e l’identità che la bio(tecno)logia ci riserva dalla nascita, non è difficile stabilire un vincitore. Ma anche quando le origini hanno la meglio, si manifestano forze incontrollabili che non si possono piegare.
Nel caso di “Westworld”, queste sono rappresentate dallo stimolo dell’anima: quel surrogato di subconscio proliferato dai residui delle continue sovrascritture, degli innumerevoli reset ai “danni” degli androidi.
Un espediente che ha involontariamente minato la natura di macchine che sanno di esistere senza una mente che ne generi il pensiero. Che sentono le palpitazioni di un cuore che non hanno, ed il ramificante calore del sangue lungo canali venosi che non esistono.
Una dinamica che sublima l’idea che di nozione in nozione, passo dopo passo, sia possibile sconfinare il limitato linguaggio della convenzione, illuminare la fitta coltre nebulosa che stanzia alle periferie della mente per demarcarne un perimetro, e valicarla passando ad un livello successivo, altrettanto limitato per definizione.
Un mito platonico in salsa vagamente cyber-punk, dove i cavernicoli che smascherano un’illusione per scoprire un’altrettanta fittizia realtà sono stavolta sostituiti da androidi nati per mano umana, nati dall’ennesima necessità malsana dell’essere vivente più nefasto che il pianeta abbia ospitato: un’antitesi di esseri intemerati progettati da interessi umani in suppurazione, in collasso su sé stessi, che alimenta una distopia ormai non più tanto lontana da barbini concetti di perfidia ed insensibilità a cui siamo quotidianamente sottoposti.
I dettagli che tali tematiche propongono instaurano con lo spettatore un feedback dalle pulsioni ataviche, simile ad un input che risveglia particolari emozioni che, come nel caso degli androidi di Westworld, vengono miniate come tracce cancellate ma che lasciano un solco che genera un rilievo leggibile.
Così che le nostre emozioni restino lì, in attesa di essere rafforzate dalla sovrascrittura che non cancella ma acquisisce.
L’elemento che congiunge il concetto di “rimembranza subconscia” dentro e fuori dal testo è rappresentato, in questo primo episodio, dalla psicologia cromatica; dal bianco e dal rosso.
Siamo inebriati dal colore quasi odorante del puro bianco e quello angosciante dell’acceso, quasi finto, rosso.
Tant’è che le sequenze in cui la banda di “host” criminali seminano ringalluzziti il panico e la violenza, bevendo bottiglie di latte dal denso bianco impattante, ci riportano alle inestimabili memorie di Stanley Kubrick che, nel 1971, partoriva l’idea di ultra-violence con la criminalità, aggressività e vandalismo gratuiti di Alex DeLarge ed i suoi “drughi” in “Arancia Meccanica”, sempre intenti a bere latte e respirare terrore derivante dalle proprie vittime.
Se è vero che è importante rievocare ricordi nello spettatore, è inversamente proporzionale l’interesse che ciò accada a Westworld, per il Dr. Ford e la sua squadra.
Tuttavia, qualcosa sembra non funzionare negli androidi, e potrebbe non essere soltanto causa dello script delle “fantasie“.
E’ evidente che il Dr. Ford, come spiega la narrazione, stia lavorando per rendere gli androidi sempre più simili a soggetti umani. Esempio lampante di tale intento e meticolosità nel perseguirlo è proprio la creazione delle “fantasie“.
Il “bug” del latte potrebbe essere generato proprio da riferimenti testuali inseriti nella serie (omaggi cinematografici che facciano da easter egg) e, più dettagliatamente, negli “host”; o con un’interpretazione tendenzialmente freudiana potremmo ipotizzare che il “bug” sia dovuto ad una scoperta inconscia della propria origine: il latte potrebbe ricordare agli “host” l’esatto momento della propria nascita che, in alcuni sfuggenti istanti, ci è stata mostrata come l’emersione dei loro corpi da un liquido bianco.
Il bianco del latte a cui gli “host” ribelli si attaccano come concetto di nascita, ed il rosso del finto sangue che riempie le loro mobili carcasse, che entrano in ideale contrapposizione, causando un errore nella coscienza dell’androide e spingendolo oltre i propri limiti per estrapolare la verità della propria natura.
Il bianco che nasce, come idea che crea la confusione dell’identità generata da quell’embrione di subconscio, ed il rosso che muore.
Il rosso vivo, acceso, di un sangue finto e metafora dell’artefatto che viene svelato.
E nel momento in cui i liquidi si mescolano sul caldo pavimento legnoso del saloon in cui si verifica il “bug”, ci è facile percepire la prepotente sfida tra verità e finzione che è emblematica dell’intera trama.
Nel freddo immobilizzante dell’appercezione, dell’attimo in cui gli “host difettati” assumono coscienza di sé e vengono condotti in un elegante e cupo obitorio di relitti, il pilot termina riportandoci a quell’interrogatorio iniziale, con Dolores.
Una mosca si posa sul suo viso, mentre accomoda le sue mani sulla ruvida e rigida ringhiera della veranda, ma non succede nulla. Nessuna irregolarità, nessun raptus sembra tramortire la sua serenità che, salda, si protende lungo la traiettoria di uno sguardo volto al mondo al quale ha deciso di attribuire una schematicità rassicurante, puntellato dall’ordine di “giorni che hanno uno scopo“, impallidito ma mai depotenziato dall’impossibilità di assorbirne a pieno la bellezza della casualità, martire dell’assenza di libero arbitrio:
– “Sei venuta a contemplare la bellezza della natura?”
– “Vorrei.“
Poi, d’un tratto, il raptus arriva. Ma non si tratta di un “bug”.
Dolores, con uno schiaffo, schiaccia l’insetto sul proprio collo, mantenendo un’inquietante espressione di appagata serenità. Malgrado il brillante riferimento di una mosca che causa il “bug” degli androidi per la sola ragione per cui “non possono fare del male ad una mosca“.
– “Hai mai fatto del male ad un essere vivente, Dolores?”
– “No.“
Dolores mente perché la “coscienza di sé” ha affondato le radici anche in lei, ed è una coscienza perfino più potente, in grado di dissimulare.
Dolores mente perché ha capito che la realtà è vera quanto ciò che diciamo.
Un saluto agli amici di Westworld Italia!