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Maeve Millay, ovvero il peso di divenire esseri umani

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Che Westworld avesse potenzialità lo si era capito fin dalla prima puntata. Che scadesse nel trito e ritrito era pure un pericolo concreto. Perché la tematica distopica, sempre più di moda come dimostrano i recenti successi di serie quali Black Mirror, The Man In The High Castle (in questo articolo una presentazione della serie) e Utopia (solo per citarne alcune), è stata spolpata fino all’osso. Eppure Jonathan Nolan e Lisa Joy hanno realizzato un prodotto fresco e intrigante, capace di coinvolgere e contestualmente far riflettere.

Il merito principale – e fondamentale differenza dallo sci-fi del genere distopico – è proprio questo.

Non tanto proiettare lo spettatore in un futuro fantastico e irreale, fatto di avventure e figure chimeriche quanto in una realtà concreta e plausibile, complessa e problematica, carica di dilemmi etici.

La realtà di un mondo in cui i libri sono vietati e chi legge è un sovversivo (Fahrenheit 451 di Truffaut); in cui il formalismo burocratico e il grigiore ha preso il sopravvento (Brazil di Terry Gilliam); in cui vige una dittatura tecnocratica e l’amore è bandito (Alphaville di Godard).

Riadattando le parole con cui Aldous Huxley nella prefazione de Il Mondo Nuovo (Brave New World) descrive il suo romanzo, la distopia “è un libro sul futuro e, qualunque siano le sue qualità artistiche o filosofiche, un libro sul futuro ci può interessare solo se si ha l’impressione che le sue profezie possano plausibilmente avverarsi”.

Avverarsi ovviamente non tanto in senso letterale, quanto in senso etico. Se da un lato il futuro prospettato è iperbolicamente buio e stridente rispetto all’oggi i problemi sollevati sono sempre attuali.

Prendiamo Black Mirror.

Guardando Vota Waldo, terzo episodio della seconda stagione, come possiamo non riflettere sull’attuale dilagare dei populismi nazionalisti? E nello speciale Bianco Natale, come pure in San Junipero (la recensione in questo articolo) non soffermarci sul tema dell’esistenza trasfusa in un guscio elettronico e sulla sua effettiva sopravvivenza?

È questa capacità di porci di fronte al dubbio morale che rende il genere distopico tutt’altro che un prodotto d’intrattenimento. E che fa sì che Westworld rappresenti una delle Serie Tv meglio riuscite degli ultimi anni.

L’idea di fondo del Westworld-format giganteggia per tutta la serie: se l’uomo è una complessa macchina di natura, quanta umanità può scaturire da un apparecchio tecnologico?

Come Dio, il vecchio Ford crea a sua immagine e somiglianza. E come Dio Robert Ford infonde l’anelito vitale attraverso la parola.

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Ma da sola la profondità del tema non sarebbe bastata a fare di Westworld il prodotto unanimemente apprezzato e morbosamente citato.

Il merito è anche della forza di personaggi capaci, perfino i più insospettabili, di rinnovarsi continuamente. E oltrepassare i confini a loro imposti dal ruolo di attori e interpreti di “caratteri”. Che ciò avvenga nella finzione del parco a tema o in quella della realtà esterna poco importa.

Prendiamo Maeve, la fascinosa Thandie Newton. Fino al sesto episodio non le erano stati riservati che sporadici scorci di trama. In The Adversary, al giro di boa della stagione, la prima vera svolta della serie passa proprio da lei. Se gli indizi sembravano condurre tutti a Dolores, ecco il jolly inaspettato.

Maeve rappresenta l’architrave costruttivo di tutta la tematica di Westword o almeno il suo asse portante: l’umanità soffiata come anelito vitale in un processore elettronico dotato di un corpo.

Già, perché se finora le rimembranze altro non sembravano che un dolce inganno per gli hosts, un ennesimo affinamento della distanza che separa i residenti dagli ospiti, di qui in poi esse iniziano a macchiarsi di un’aura più nera.

Per quanto la figura di Arnold si facesse incombente e inquietante già negli sviluppi precedenti mai come in The Adversary era emerso il pericolo che essa si concretizzasse nella possibilità di una presa di coscienza delle macchine.

A questo conduce la ricerca ossessiva per la verità della maîtresse del Mariposa.

A peso di una morte per strangolamento, aggrappata a stralci di memoria, Maeve si autoimpone un risveglio nel mondo reale che per tematica risente del modello matrixiano (Neo e la scoperta di Matrix) capovolgendone però radicalmente e quasi ironicamente il senso. Sono gli uomini ora in controllo della macchine e queste ultime inconsapevoli dell’irrealtà del mondo in cui vivono.

Più volte gli autori avevano condotto il nostro sguardo sullo straordinario realismo di tali macchine. Sulla loro sempre più piena umanità (chi non ha sussultato di fronte allo sguardo carico di dolcezza e timore di Dolores?). Ma Maeve raggiunge qui l’acme insuperato del processo di umanizzazione.

È la consapevolezza di sé che distingue l’uomo da quasi ogni altro essere vivente. È il suo tratto caratteristico. Ciò che ne sviluppa pensiero e coscienza.

E viene da chiedersi quanto di programmatico possa mai esserci in un macchina capace di minacciare con un bisturi; di ricattare e approfittare con scaltrezza della situazione; come pure di indugiare sulle mani tenere di un essere umano (il frastornato tecnico-ingegnere Felix Lutz); e sussultare alla vista delle proprie memorie proiettate su uno schermo. Quell’improvvisazione che qua e là è concessa dai programmatori alle loro creazioni, capace di rendere più realistiche le reazioni degli automi ma pur sempre pianificata a tavolino, sembra lasciare il posto a qualcosa di più estremo. Fosse anche la capacità –assoluta– di scegliere.

Mentre Maeve percorre le sale dell’immenso laboratorio per qualche secondo la camera si sofferma sull’immagine di un corpo anonimo e non ancora caratterizzato. Carne inanimata, che irrorata di un surrogato del sangue d’improvviso prende calore e inizia a pulsare. È questa l’immagine di un’umanità per quanto artificiosa fortemente vivida e palpitante.

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In un processo evolutivo che va a compiersi in poche ore all’autocoscienza segue l’omicidio. Non è però Maeve che se ne fa carico ma un personaggio ancora più secondario. Quel Robert che scopriamo non essere altro che un Ford bambino cristallizzato nell’unico ricordo felice dell’infanzia dell’anziano fondatore del parco. La voce di Arnold che gli comanda di uccidere il cane così che quest’ultimo smetta di uccidere a sua volta non è altro che la voce di una coscienza viva seppur esterna. E probabile riflesso digitalizzato di un uomo che non esiste più.

Le macchine sembrano ripercorrere, in questo inaspettato e risolutivo episodio, le orme archetipiche dell’umanità.

Un’umanità che acquista coscienza di sé con Adamo che mente a Dio, qui nella fattispecie al suo creatore, il dott. Ford, e che infine uccide (Caino). Che in una parola si avvia alla piena umanizzazione abbandonando la beata incoscienza di sé. E fuoriuscendo da quel paradiso terrestre (forse poco paradisiaco) che è il parco di Westworld.

La riscoperta di sé passa anche attraverso il Labirinto, creazione esso stesso di Robert Ford. In quest’ultimo caso però è un percorso segnato, precostituito, seppur in certo qual modo libero. Solo a piena maturità, solo in una coscienza che si sviluppa gradualmente passando attraverso un infinito ciclo di morti e rinascite i residenti possono intraprendere il cammino e svelare lo schopenhaueristico velo di Maya.

Dolores, dunque, è condotta per mano da Ford nel suo “risveglio” all’interno del parco di Westworld e porta a compimento un precostituito piano del suo creatore. Maeve, operando all’esterno, rappresenta qualcosa di altro. Qualcosa di più.

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In quel finale in cui l’amore per la figlia sembra apparentemente una sconfitta, la resa al suo creatore, il deterrente ultimo alla fuga e alla finale e piena libertà, in esso si manifesta in realtà il compimento conclusivo di un’umanizzazione reale. Era programmata per fuggire. È rimasta.

Forse Ford puntava proprio su questo rigurgito di emotività per trattenere Maeve. Forse no.

Ma rispondete sinceramente: quanta umanità c’è nell’amore?

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