Westworld ha rimescolato le carte in tavola
«Bring yourselves back online.»
«Tornate in linea.»
All’alba di ogni nuovo episodio, sorge la fioca luce bianca della luna, sopra le pallide pareti toraciche che somigliano ad una scoscesa valle.
Le braccia rese meno meccaniche dal leggiadro movimento sospeso, cominciano a disegnare l’avvenire.
Muovono i fili; “tessono” le corde dello strumento che melodizza le azioni, quasi offrendo una trama direttiva a quelle danzanti braccia meccaniche.
Un cavallo bianco corre sul posto, quasi ad imprimere con forza sul suolo la volontà deterministica che gli impedisce l’avanzamento, mentre altri “pennelli meccanici” ne delineano l’artefatta ossatura.
L’iride osserva e la pupilla si restringe, alla visione dell’agognato paesaggio desertico del luogo che ostenta impulsi e desideri.
I neri semitoni dei bassi che accompagnano la brulla ed ardimentosa melodia sono già affossati, come a preannunciare l’inutile operato umano che si illude di avere il controllo, con la mano destra della melodia, di quel pianoforte.
Iride e pupilla puntano ancora fisso l’obiettivo, mentre due corpi smorti danno maggiore espressione ai voluttuosi impulsi che Westworld si prefigge di assecondare.
Il Deus-ex continua a danzare sul creato, ma stavolta il metallo tocca altro metallo, e la sublimazione della violenza somatizza in una pistola dall’argenteo riflesso e dalla superficie insospettabilmente calda.
I discontinui segmenti del futuro attorcigliano l’avvenire lungo il piano a rullo, per svelare una verità già appresa: ora, quelle mani non devono più fingere di avere il controllo.
Ora la melodia va avanti da sola, sotto l’occhio vigile dell’iride sovrano che sa tuttavia di potersi chiudere.
Perché se chiudiamo gli occhi, se smettiamo di agire su di esso, il mondo continua ad esistere ugualmente.
E’ complicato tendere al ribasso l’asticella che punta alle aspettative, quando siamo accompagnati alla balzana ma splendida porta di Westworld, oscillati dal moto ondoso di una sigla che ha già conquistato, all’inizio di ogni episodio.
E’ altrettanto difficile, ogni volta, dissimulare il folgorante senso di appagamento che ci pervade alla fine di ognuno di questi.
Questa settimana, Westworld non è stata da meno pur mancando leggermente nell’assetto visivo e privilegiando quello concettuale, giocando con lo spettatore a quello stesso “labirintico” gioco che il Dottor Ford sembra aver già cominciato a sperimentare.
Il punto di vista è abile nel mettere a fuoco, in “Westworld”, e non trema all’idea di muoversi in maniera concitata da un soggetto all’altro; stavolta è toccato nuovamente a Dolores e Teddy.
In un affresco iperrealistico di predestinazione ed angosciosa consapevolezza, dove ciò che è artefatto sembra contenere un embrione di subconscio che genera vita, la dorata chioma melliflua di Dolores quasi sembra non generare contrasto con uno dei riferimenti ai quali, esplicitamente a detta di Nolan e Joy, si è attinto per la costruzione del suo personaggio: il nostalgico ritratto “Christina’s World” di Andrew Wyeth (la cui assonanza col nome della nuova nemesi di Teddy, Wyatt, risuona quasi come un preoccupante squillo subliminale).
L’impronta del gene Nolan è sempre stato un vivido indizio di ciò a cui avremmo assistito, ma in questo episodio quel tratto caratteristico sembra essersi rafforzato al punto da manifestare ciò che per definizione è ovvio che susciti nello spettatore: il più dispersivo disorientamento dato dalla pluralità del caos, e la totale vulnerabilità causata dalla consapevolezza del più deterministico tratto della nostra esistenza.
Quello dato dalla consapevolezza della morte.
VERSO LA COSCIENZA: LA MENTE BICAMERALE
– «Arnold voleva creare… la coscienza. La immaginava come una piramide, capisci? Memoria, improvvisazione, interessi personali…»
– «E sulla cima?»
– «Non ci è mai arrivato.»
L’atmosfera della camera del Dottor Ford entra in antitesi col prosaico susseguirsi delle confidenziali battute tra quest’ultimo e Bernard.
Il suo fido assistente teme la possibilità di aver “eliminato i sintomi ma non la malattia” degli host che hanno manifestato anomalie a causa delle “rimembranze”/”fantasie“. Questo perché ha scoperto che entrambi gli host “affetti dal bug” hanno fatto riferimento ad un misterioso uomo di nome Arnold.
E’ in questo momento che parte uno degli espedienti narrativi più apprezzati dallo spettatore e, proporzionalmente, più odiati dagli sceneggiatori: il famigerato “spiegone“.
La sequenza in cui Ford racconta del suo vecchio assistente sembra collegarsi alla narrazione come un filmato di Hideo Kojima (ogni parvenza di similitudine alla letteratura videoludica sembra ormai legittimata dalle dichiarazioni degli stessi Nolan e Joy), slittando con un flashback (che ci delizia con un prodigioso lavoro di CGI nel miracoloso ringiovanimento di un già immortale Anthony Hopkins) ai primi anni di sperimentazione dell’intelligenza artificiale.
Insieme con lui c’era Arnold, il suo assistente dalle brillanti attitudini.
Arnold, dall’altro del suo genio, si arrovellava su un’aporia non maneggiabile; su un problema che prescinde l’operato umano: la creazione di una coscienza.
La sua visione dell’essenza ed esistenza in atto e potenza vantava una struttura piramidale, che consisteva in quattro stadi, di cui il primo (la cima della piramide) rimasto incognita.
In ordine di successione: memoria, improvvisazione, egoismo.
Con i limiti di una conoscenza che non precede dall’azione, con un pensiero che funge da previsione preventiva ed ipotesi di qualcosa a noi ontologicamente ignoto per definizione, cercheremo di giungere alla cima di questa piramide con un’analogia sottile.
L’artefatto della coscienza è un atto conseguibile esclusivamente su una scala ad intervalli, ed è ciò che tacitamente Nolan cerca di spiegare tra le righe, attraverso l’espediente del meta-testo col dialogo tra Ford e Bernard.
Esiste un noto metodo di misurazione, usato specialmente in psicometria, reso noto dallo studioso psicologo Stanley Smith Stevens.
Attraverso quattro diverse scale, viene conseguita la misurazione di una variabile che possiede più livelli (minimo due). Nel caso non si abbiano almeno due livelli, non parliamo più di variabile, bensì di costante.
Per capire la scala da utilizzare per la misurazione a cui siamo interessati, è necessario capire che tipo di rapporto esiste tra i livelli: nel nostro caso, prenderemo in considerazione soltanto due di queste scale per porre un esempio più celere ed estremo.
C’è una sola differenza, tuttavia sostanziale, tra una scala ad intervalli ed una scala a rapporto, e questa consiste nell’accezione che attribuiamo al punto di origine della scala stessa.
– La scala a rapporti effettua una valutazione quanto più oggettiva è possibile all’uomo, prendendo come punto di partenza uno “0” che rappresenta numericamente “la totale assenza della caratteristica che stiamo misurando“, andando così proporzionalmente a salire (o scendere) gradualmente e fornendo un valore oggettivo (prendete, come esempio, la misurazione della temperatura in Kelvin).
– Con la scala ad intervalli, lo “0” è del tutto arbitrario ed assume un valore convenzionale, un punto di origine definito ma che non determina la partenza “dalla totale assenza della caratteristica misurata“.
Uno zero che non vale zero, insomma, ma un valore X, e che viene chiamato tale solo per operabilità.
Arnold fa esattamente questo: pone uno “0” arbitrario, immergendo quella gocca di liquido primordiale che consiste in un monologo (la voce degli stessi host), nelle umide istanze psichiche della mente, allo scopo di rappresentare un’origine fittizia dalla quale attingere per definire ed intervallare i vari stadi della conoscenza di sé; i vari stadi della coscienza.
Al termine della spiegazione, Ford risponde a sé stesso circa l’operato di Arnold:
– «Ma non ha tenuto conto di due cose. Uno: che l’ultima cosa che vogliamo qui è che gli host abbiano coscienza. Due: dell’altro gruppo. Quelli che credono di sentire la voce di Dio.»
Ford lascia così trasparire l’intento malcelato dietro quel muro di benevolenza che l’ha finora protetto: è quel gruppo che servirà al suo scopo, ed ha cominciato con Wyatt, il nemico brutalmente innestato nel background di Teddy.
Il lavoro di Arnold, probabilmente rinnegato da Ford, potrebbe essere stato quello di creare una stringa di codice, che fungesse da attivazione dei ricordi del proprio monologo, della propria coscienza.
– «Errore è il termine che ti vergogni ad usare.»
Ford, con l’aggiunta delle “rimembranze“, potrebbe aver commesso quell’errore che nel primo episodio ammette a Bernard, risvegliando il codice verbale che “come un virus” risveglia quell’embrione di subconscio degli host che ne vengono ad ascolto: “Queste gioie violente hanno violenta fine”.
Gli host più vecchi, quelli già presenti negli anni di attività di Arnold (tra questi Dolores), potrebbero far parte del primo gruppo, coloro in grado di assumere una piena coscienza di sé.
I nuovi, invece, quelli che farebbero di quella voce una fonte di delirio.
Ford potrebbe servirsi di quel secondo gruppo, afferrando le fredde carcasse brancolanti nel buio in preda alla follia, per ridurli a brancolare nell’accecante luce della religione, motivando quelle voci con la presenza di un Dio.
Creando una nemesi agli androidi coscienti.
Secondo questo spunto, l’Uomo in Nero (che abbiamo definitivamente realizzato non essere il “Gunslinger” del film, dato il fatto che nell’episodio Teddy viene ripetutamente chiamato in questo modo da Ford facendo capire che sia lui il personaggio protagonista del film del ’73) potrebbe rivelarsi addirittura un “salvatore” intento a liberare le coscienze degli host.
Il “Labirinto” potrebbe avere finalità proprio in questo.
Lo stesso Labirinto che “l’host falegname” cercava, uscendo dal suo script (con il conseguente, superbo, glitch causato al resto del gruppo per l’assenza di un personaggio in grado di tagliare la legna per il fuoco), e che si è poi trovato costretto a concludere in maniera drastica e cruda il suo viaggio prima che i due “tecnici” potessero impossessarsi della sua testa per poterla esaminare?
Dolores sembra aver superato uno dei livelli della coscienza, giungendo ad una sola collettiva coscienza latente che accomuna gli host più datati (e che gli stessi, a quanto pare, cercano di occultare agli occhi degli umani), passando per tutti gli stadi della struttura piramidale che porta al concetto di mente bicamerale.
La pistola di Dolores è un prelibato dettaglio metaforico che muove questo suo percorso.
La pistola vista, poi in un fuggevole attimo sparita, all’interno del suo cassetto è la parvenza della manifestazione del primo stadio: la memoria. In questo caso, il ricordo degli esiti delle vecchie storyline.
La richiesta rivolta a Teddy di insegnarle a sparare: improvvisazione.
Il terrore che scivola graffiante lungo il suo volto, sdraiata nel fienile con le spalle che soffrono il pungolante fastidio della paglia, il dito pesante come un macigno che diviene sempre più leggero, quasi a divenire completamente insensibile per permettere la pressione del grilletto, col successivo sparo per pura autodifesa: interesse personale (egoismo).
MEMENTO MORI
– «Sparalo!»
Stavolta l’impronta è forte, come dicevamo.
In questo terzo episodio, Jonathan Nolan ci aiuta a “ricordare di non dimenticare” che idea e sceneggiatura di Memento sono frutto del suo operoso e florido lavoro nel fobico alveare dei ricordi, posto su quel sistema fallace e terrigeno, troppo limitato per contenerne l’immortalità, che è la nostra mente.
Timeline che si incrociano in un ritmico tema dai tratti quasi thriller accompagnano anche tematicamente quello che ci sembra un rimando al suo lavoro cinematografico.
La violenza, in “Westworld”, sembra manifestarsi come un elemento chiave nello “sblocco” di determinati stadi del subconscio, questo è stato più volte appurato nel corso degli scorsi episodi.
Ciò che caratterizza questo terzo granello di sabbia nell’ermetica clessidra di “Westworld”, è la manifestazione latente dell’idea che partorisce la violenza, essa stessa catalizzatore di eventi, come enormi megaliti che si spingono in un effetto domino.
A questo giro, infatti, scopriamo la “consapevolezza della morte” come incentivo che motiva la violenza, e la violenza che libera a sua volta la coscienza di sé. Proprio come se trattassimo dei “livelli”.
Abbiamo elencato gli stadi vissuti da Dolores, arrivando a tre, sostando sullo stadio dell’egoismo.
Ma ce n’è uno evidentemente mancante; la punta della piramide: l’autocoscienza.
Al contrario di quanto afferma saccente Ford, la punta della piramide si è raggiunta esattamente attraverso lo sviluppo di queste tre fasi, ed il primo caso ne è la stessa Dolores.
L’ultimo stadio (l’egoismo) le permette di sublimare la violenza in un fulmineo colpo di pistola, e parallelamente di “deragliare” oltre i binari dello script che la trattenevano in quella illusoria palla di vetro che non offre scelte arbitrarie.
Una violenza incoraggiata da quella ripudiata consapevolezza della morte.
Dolores ricorda di poter morire, e questa consapevolezza la spinge all’impulso violento.
La violenza, ancora una volta, sembra anteporsi al concetto di origine al solo fine di accartocciare l’intero costrutto come una fisarmonica per entrare in contatto con la coscienza nel momento in cui l’istinto primordiale prende il sopravvento.
Ancora una volta, ci sembra di rivedere il rosso riabbracciare il bianco.
Liberando l’idea di violenza primordiale, gli host potrebbero teoricamente “rompere il proprio script“, cambiare lo sviluppo della propria storyline, giungendo a scelte arbitrarie che rappresentano il raggiungimento del più alto gradino della piramide nel concetto di mente bicamerale.
Dolores ha completato, definitivamente, la piramide di Arnold.
Uno che sembra voler rimanere costantemente intrappolato nel suo personale “labirinto di Cnosso” sembra proprio il bonario (di nome e di fatto) Teddy, che anche in questo episodio è utopia vederlo vendere cara la pelle. Stavolta la sua morte potrebbe non essere programmata, e causata accidentalmente da un guest (che sappiamo essere gli unici in grado di modificare gli esiti di una storyline), ossia la ragazza che parte con lui alla ricerca di Wyatt (ennesima quest di gioco), che inciampando nella trappola degli indigeni compromette quello che sarebbe potuto essere l’incontro catartico (o nefasto) tra Teddy e lo stesso Wyatt.
Un altro esempio di violenza (stavolta da fonte indiretta) che “sblocca” un livello di coscienza potrebbe essere stato offerto nell’episodio precedente: quando l’Uomo in Nero minaccia Lawrence di uccidere una tra sua moglie e sua figlia, per poi concretizzare le minacce sparando a sua moglie, la bambina sembra “liberarsi” dallo script, passando ad un livello successivo, entrando in “modalità improvvisazione“ a causa del fatto di non possedere più uno degli elementi necessari per continuare a compiere fedelmente la propria storyline.
Così, offre l’informazione all’uomo che con disarmante disinvoltura sbroglia intricati nodi di gioco quasi come se ne fosse il creatore stesso.
Anche Dolores ha bisogno di credere in un mondo fuori dalla sua mente, e realizzare che le sue azioni hanno ancora un senso.
Anche Dolores ha bisogno di ricordare.
E voi (come lei) non abbiate paura di chiudere gli occhi e cadere in “un sonno lungo e senza sogni“, in attesa del prossimo episodio.
Non temete, perché se priviamo lo strumento di quel morbido ed accomodante impatto dei nostri rigati polpastrelli, esso continua a produrre la sua musica.
Non temete, perché se chiudiamo gli occhi il mondo continua ad esserci, anche se non possiamo vederlo.
Un saluto agli amici di Westworld Italia!