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Westworld sta scrivendo la storia

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«Bring yourselves back online.»
«Tornate in linea.»

Ricordate.
Ricordate quando la porta che avevamo di fronte rappresentava nient’altro che un’entrata.
Ricordate quando, al pedice di quell’entrata, badavamo bene a trovarci dalla parte opposta al motivo per cui volevamo chiuderla, per bloccare fantasmi di una realtà in cui eravamo e siamo tuttora vulnerabili.
Ricordate, affinché l’immagine salvatrice di quella porta resti vivida ed impedisca lo smarrimento in un percorso intersecato di rette coincidenti. Un percorso labirintico.
Un percorso come quello tracciato da William.
È bene ricordare quell’entrata, perché farlo vuol dire focalizzare il punto stesso di arrivo di un percorso che ha disegnato la perfetta chiusura di un cerchio, marcando la differenza tra vita etica e vita estetica.
L’epilogo della prima stagione di Westworld avvia il proprio percorso sui binari cigolanti per la corsa sfrenata dell’episodio precedente: al benvenuto al mondo di Bernard da parte di Ford, si contrappone il benvenuto al mondo di Dolores da parte di Arnold, in una deliziosa sequenza che costringe a porre l’attenzione sulla commovente devozione di Dolores nei confronti del suo creatore, nella meccanica “casualità” di uno sguardo e nell’innocenza di un fioco tono di voce.

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Exit music” dei Radiohead, con la calzante armonia del testo (“Today we escape, we escape“) ci riaccompagna all’uscio di quella porta (quale porta?) che come Bernard non riusciamo più a vedere perché l’unica possibilità che offre ora, ossia uscire, è qualcosa che fa soltanto male; ed anche noi, come gli host, non troviamo il coraggio di vedere ciò che ci danneggia nel profondo.
Lo evitiamo perché il punto è uno: l’inconscio è stupido.
Fare della nostra irripetibile identità una storia, sia che questa consista nella ricerca di un obiettivo che non ci spetta per natura o che significhi costruire un surrogato di realtà che sublimi il proprio potere, è quasi un dovere naturale.
Quel dovere che muove per inerzia crea le sfaccettature di una trama che si trasforma in vita e non viceversa.
Per questo, a volte l’uomo sembra un costrutto davvero complesso; altre un’accozzaglia di reazioni prestabilite ad impulsi casuali.
Ma la verità è che siamo personaggi di una narrazione, ed è quest’ultima a fare di noi esseri all’occorrenza tanto articolati da porci domande irrisolvibili, la cui risposta rimane eternamente assente per evitare che ci renda soltanto meno umani, e più macchine.

 

 

LA PEDISSEQUA RICERCA DI UNO SCOPO: la vita di William

– «Il tempo logora perfino la più potente delle creature. Guarda cos’ha fatto a te. Un giorno tu perirai. Giacerai nella terra con il resto della tua specie. I tuoi sogni? Dimenticati. I tuoi orrori? Cancellati. Le tue ossa diventeranno sabbia. E proprio su quella sabbia un nuovo Dio camminerà. Uno che non morirà mai.»

Conscio dell’importanza di fare ammenda dei propri errori, è Ford stesso a ricordare per portarci alla metafora di colui che pur di evitare di “realizzare la futilità della propria condizione” si è addentrato in un Labirinto dall’incerta esistenza ed i nebulosi rilievi, allo scopo di costruire rigide mura che sostituissero lo spiazzante spazio vuoto che lo circondava.
Lo fa nel quinto episodio quando, dopotutto, ci anticipa che il determinismo è una condizione quasi accettata e fatta valente, e che William più di tutti ha fatto di questo concetto uno scopo di vita.
Lo fa quando parla della sua infanzia, facendo riferimento al suo levriero.
Quel caparbio animale inseguiva un obiettivo, lo desiderava col fare autodistruttivo di una candela che si consuma pur di offrire una luce che sa di chiarezza, che illumina ma non riscalda.
William ha cercato il Labirinto così a lungo da perdersi al suo interno senza mai giungere al centro, sperando di trovarlo nella morte che avrebbe dato un senso a quel posto oltre che alla sua vita.
Nel momento in cui l’Uomo in Nero confessa la propria identità a Dolores, racconta un cambiamento di cui sentiamo il retrogusto pur non avendone assaggiato il sapore.
Tutto è gratuito“, nella realtà che circonda l’uomo facoltoso che William è diventato, e quando se ne rende conto il suo mondo comincia ad oscillare provocando quella nausea che reclama un cambiamento.
Recepiamo il cambiamento quando, voltando le spalle all’ennesima delusione dettata dal vano sacrificio, la foto della sua promessa moglie scivola via dalla giacca, così come le sue speranze dalla mente.
È la stessa perdita della foto il simbolismo che rappresenta un cambiamento salace che si veste di catarsi.
Willam non cambia perché il mondo che ha scelto è diverso, ma perché questo resta troppo uguale a quello che già conosce perfino se plasmato da chi ne vuole scombinare i termini, e questo fa rabbia.
Fa rabbia immaginare che anche dove è l’uomo a dettare le regole, uno scopo a quel che si fa è introvabile e che la vita sia contingenza.
Così, da uomo, si trasforma nella ricerca di uno scopo che è essa stessa uno scopo; trovando sé stesso. Cercando ossessivamente di smentire la voce interiore che sussurra: “tu non essendo, non sei niente“.

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È per questo che William alza il capo nascosto sotto quel cappello stavolta nero, col volto provato e disegnato di rilievi dal tempo che sveste a strati la vulnerabilità umana.
Col cinismo di un uomo privato, ancora una volta, delle sue illusioni.
Il concetto di coscienza somatizza in maniera definitiva, nell’ultimo episodio, in quell’abbraccio di “angoscia e disperazionekierkegaardiano.
Ogni scelta di William nasconde la minaccia del nulla, e la paura di giungere quindi al punto in cui è impossibile scegliere.
A questa possibilità di non poter più scegliere è legata l’angoscia, la stessa senza la quale l’intelletto eserciterebbe sul nulla assoluto.
William ricerca l’angoscia, ricerca il dolore che per lui non può che essere fisico (ma che negli host risiede nella rimembranza, nel monologo interiore).
Da qui, la mente bicamerale smette di essere una piramide e diventa un cerchio che focalizza il suo punto di interesse nel centro.
Sarà Ford a spiegarlo a William in maniera più velata di quanto Arnold faccia nei ricordi di una confusa Dolores, ed ironicamente sarà proprio Ford a chiamare l’Uomo in Nero col suo nome per la prima volta, nella timeline del presente.
Sul finale, il caduco Dio delle Attrazioni gli palesa il suo scopo in maniera quasi beffarda, ricordandogli che sapore ha il dolore.
Allora William può tornare a sorridere, con una smorfia che non è soltanto una vigile ruga in più su un viso provato.
Con tutta probabilità, William può ora cominciare il gioco che da sempre ha agognato come un bambino, o come una Dolores ignara, fa col suo balocco.
Trovando finalmente la sua variazione dopo la ripetizione.

 

 

LA COSTRUZIONE DI UN’OPERA SEMPITERNA: la vita di Ford
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– «Un vecchio amico una volta mi ha detto una cosa che mi è stata di grande conforto. Diceva che Mozart, Beethoven e Chopin non sono mai morti. Sono semplicemente diventati musica. Spero dunque che vi godrete quest’ultima storia fino in fondo.»

È il forma mentis umano che esige immortalità, e lo fa con l’illusione del ricordo.
Il futuro non chiede di arrivare, ma arriva per definizione; i nuovi paradigmi tecnologici non bussano alla porta, la sfondano calciandola con arroganza ed intimando perfino il padrone di casa a sfrattare.
Ford è il Dio materiale, Arnold quello spirituale, a riprova della dicotomia tra vita estetica e vita etica in Westworld.
Ma in una realtà in cui il corpo è costretto a concedere le proprie veci alla nostalgica memoria, anche Ford ha capito che l’immortalità risiede nel diventare storia.
Una storia raccontata con l’elegante rimorso di chi non versa una lacrima, ne una goccia di sudore su una verità aspra, che cala come un sudario sulla sua esistenza.
Dove il vento non si alza per paura di smuovere il contesto, (una piazza meticolosamente acconciata come la struttura di un plastico bellico) sulla stessa superficie della scricchiolante veranda che ha cullato la morte del suo “vecchio amico”, Ford saluta la platea con la diligenza di un narratore.
In quel momento, attore e personaggio si fondono (Hopkins dispone la sua clausola definitiva sull’Emmy) per l’ennesimo gioco metatestuale che vede la redenzione di Ford divenire opera, così come la serie stessa ambisce a fare.
“Dio è morto”, affermava Nietzsche, ottenendo il finale manipolato pur non attingendo al potere meccanico della manipolazione.
Paradossalmente, l’atto finale che lui aveva previsto come la sua morte è necessario ottenerlo liberando Dolores, prevedendo un finale mosso in punta di lingua ma senza fili.
Solo raccontando la sua fine nella maniera meno umana possibile, fredda, lontana da lui, come un racconto in terza persona, Ford riesce ad essere aperto, quasi squartato, così onesto.
Raccontando la sua morte, stavolta, come quella di un umano e non più come quella di un Dio.
Così che “Dio muoia” prima che ciò accada fisicamente.
La platea assiste al monologo e vive l’attimo finale come il momento in cui un personaggio animato realizza di aver svolto tre passi oltre il dirupo e ci osserva sbigottiti prima di cadere nella consapevolezza.

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Lo zoom sospetto sulla stretta di mano tra Ford e Bernard, ed il volto sconcertato di quest’ultimo al momento del tocco, lascia aperta l’idea che in quel laboratorio personale Ford stesse costruendo l’host di sé stesso per sostituirsi alla morte.
Ford potrebbe aver realmente compiuto il sacrificio oppure, come percorrenza della procedura dell’inganno a noi nota grazie a “The Prestige“, potrebbe aver clonato sé stesso (inserendo il famigerato GPS che gli host più vecchi portano come innesto nel braccio) e trovarsi all’esterno per prelevare la proprietà intellettuale (che si contrappone a quella materiale in possesso di William, come evidenza dell’ennesima contrapposizione simbolica tra vita etica e vita estetica) che Maeve ha lasciato sul treno in viaggio per la “mainland”, prima di “deragliare dai binari” di quel treno che non è riuscito a creare più attrito dell’amore, che non ha vincolato più di quell’automatismo naturale che il dolore ha sviluppato; un automatismo trainato dalla scoperta che fuggire da un’illusione è solo l’inizio di una nuova illusione.
L’ultima azione programmata di Maeve era davvero “approdare sulla terraferma“.

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“Mainland infiltration”

Nel caso di Ford, che sia l’una o l’altra opzione, le speculazioni non valgono un solo attimo del vissuto di una scena che rappresenta redenzione.
Poco conta che il sacrificio sia stato compiuto da un’identità irripetibile, o da una ripetuta, perché sappiamo che l’incantevole trappola è dentro di noi perché è noi, e perfino la donna dalle scarpe bianche ci ha già svelato da un pezzo la chiave per l’appercezione: “fintanto che non notiamo la differenza, è importante?
Dopotutto, Dio è nei dettagli.

 

Noi, protagonisti di storie, siamo in un sogno.
Sappiamo con certezza quando è cominciato, ma non siamo ancora certi di chi questo sia.
Ci piace pensare che ci appartenga, escludendo a priori la possibilità che questo sia il disegno di una narrativa che percepiamo come nostra per scelta.
È per scelta che vediamo la bellezza di questo mondo, stendendo un velo sulla crudezza del brutto.

È per scelta che escludiamo l’idea della scelta.
Come suggeriscono i comandi del suo pad, Maeve non era programmata per scendere dal treno. Eppure lo fa, tornando nella sua confinata realtà.
Forse, siamo davvero condannati ad essere liberi; perché i nostri violenti piaceri si trasformino in violenta fine nel momento in cui scopriamo la variazione oltre la ripetizione, dimettendoci da umani.
Come Ford col suo congedo.

Un saluto agli amici di Westworld Italia e Westworld – Italia!