Alla soglia dei trent’anni a volte mi guardo indietro e penso: chissà quante lauree avrei preso se avessi passato sui libri tutte le ore trascorse su Netflix. Chissà quanti millennial l’avranno pensato almeno una volta. Poi faccio mente locale su quante cose ho imparato mentre avevo gli occhi incollati alla tv di questo secolo. Durante un’intervista a quelli che sono oggi conosciuti come gli “Exonerated 5” (protagonisti della miniserie Netflix When They See Us), Oprah Winfrey sottolineò come ci siano delle storie di ieri cui le generazioni attuali, per forza di cose, non sono esposte. Ma che dovrebbero assolutamente conoscere, per far sì che la memoria e la consapevolezza rendano certe tragedie impossibili da replicare.
In quell’intervista di quasi due anni fa, la regina dei talk show americani si riferiva alla storia vera raccontata proprio in When They See Us.
In caso non abbiate visto la serie – o anche solo l’intervista di Oprah – vi consiglio caldamente di farlo. Potreste scoprire cose che ancora non sapevate della storia di Kevin Richardson, Yussef Salaam, Raymond Santana, Antron McCroy e Korey Wise. O degli attori che li hanno impersonati in una delle migliori miniserie di Netflix.
Disponibile sulla piattaforma streaming dal maggio 2019, When They See Us potrebbe rappresentare davvero un’esperienza unica. O per lo meno lo è stata per me. Perché di tutte quelle ore spese nel corso della mia vita guardando serie tv, mai ho provato le sensazioni che questa storia mi ha regalato dal primo all’ultimo momento. Mai ho considerato un prodotto televisivo come “un male necessario”, tanto quanto accaduto con When They See Us.
E non perché la miniserie di Ava DuVernay fosse l’unico prodotto “impegnato” sul mercato. Se c’è qualcosa di estremamente positivo nella televisione degli ultimi anni è proprio l’ampia varietà di film e serie tv impegnati da un punto di vista sociale e narrativo.
Eppure sento di poter riconoscere con assoluta certezza che When They See Us sia stata la mia prova più difficile come spettatrice.
Senza dilungarsi troppo sugli eventi e le storie che hanno preceduto il 19 aprile 1989, la serie va dritta al punto della questione, mostrando fin da subito cos’è accaduto quella sera ad Harlem, nello stato di New York, e cosa ha fatto seguito nei giorni successivi. Il primo episodio di When They See Us è stato come un pugno sullo stomaco. Letteralmente. A fine primo episodio ero così scossa da non riuscire ad andare oltre. Il giorno dopo però mi sono fatta coraggio e ho visto gli altri tre episodi quasi d’un fiato. Ed è stato anche peggio.
Difficile inquadrare un singolo elemento in grado di rendere quest’esperienza televisiva tanto intensa. Il successo della resa senza dubbio risiede in una combinazione di molteplici elementi, ognuno di essenziale importanza. Una storia di incredibile portata sociale, tanto per iniziare. La storia conosciuta fino a qualche anno fa come quella dei “Central Park 5”, ora noti come Exonerated 5. Ovvero i cinque uomini americani (quattro afroamericani e un ispanico) condannati ingiustamente nel 1989, appena adolescenti, a scontare una pena durissima per un crimine che non avevano commesso.
La storia viene magnificamente raccontata attraverso una sceneggiatura e una messa in scena dure come la realtà che fu.
Almeno per quanto sia possibile rendere sullo schermo la tragicità di una tale vicenda. Le interpretazioni dei protagonisti sono superlative su ogni fronte. A partire da quella degli attori che hanno indossato i panni dei veri Exonerated 5 al momento dell’arresto a quella di coloro che ne hanno vestito i panni da adulti.
Con particolare plauso all’interpretazione di Jharrel Jerome, nel ruolo di Korey Wise. Unico ad aver interpretato il suo personaggio sia nell’adolescenza che nell’età adulta. Interpretazione che gli è valsa non a caso un meritatissimo Emmy Award nel 2019, sotto gli scroscianti applausi del pubblico e di un Korey Wise in lacrime tra il pubblico.
A tal proposito ho trovato singolare la risposta di Chris Chalk, interprete dello Yusef Salaam adulto, alla domanda di Oprah che gli chiedeva come avesse fatto a calarsi nel ruolo. L’attore non ha fatto troppi giri di parole: ha sottolineato il contributo del vero Yusef nella maniera più vera possibile. Soffermandosi sulla sua incredibile personalità, sulla capacità di riprendere in mano una vita segnata da un’ingiustizia impossibile da cancellare o compensare. Una conoscenza fondamentale che lo ha spinto “a voler far meglio, a voler essere migliore”. E a quel punto si è rivolto al pubblico in sala:
Non parlo solo di me, mi rivolgo a tutti voi: se lui può superare quanto gli è accaduto per essere una persona migliore, allora tutti noi possiamo e dobbiamo esserlo.
Tutto questo e non solo, ha reso Wen They See Us un’esperienza unica. Un pugno allo stomaco che non ho potuto fare a meno di autoinfliggermi per quattro ore e di cui sono grata.
Tempi di narrazione, fotografia, intensità delle immagini. Tutto l’insieme ha fatto sì che l’esperienza nel suo intero fosse degna di essere vissuta appieno. E nel viverla non ho potuto fare a meno di esplorare il livello più profondo della mia empatia. Nei confronti di chi quella storia l’ha raccontata, di chi l’ha vista con i propri occhi e di chi l’ha vissuta sulla propria pelle.
La mia analisi come mera spettatrice in presa diretta è saltata di livello in livello per cercare di entrare nella mente di ognuno dei personaggi inquadrati nella serie. Ho cercato finanche di mettermi nei panni della ormai odiatissima Linda Farnstein, direttrice dell’unità per i reati sessuali del NYPD all’epoca dei fatti. Considerata diretta responsabile dell’ingiustizia perpetrata ai danni degli Exonerated 5.
Ho provato a vestire i panni dell’avvocato del diavolo per chiedermi cosa passasse per la testa di una donna che ha preferito autoconvincersi che una falsità fosse realmente accaduta invece di continuare a cercare una verità che non solo avrebbe risparmiato ai cinque ragazzi un’ingiustizia di tale portata, ma forse avrebbe salvato anche la vita della donna uccisa pochi mesi dopo l’accaduto, dallo stesso uomo che aveva violentato la jogger di Central Park.
Le uniche giustificazioni cui sono riuscita a pensare sono state la pressione di mettere una parvenza di fine, anche se solo nella propria testa, all’ondata di stupri che terrorizzò New York nel 1989. E il ruolo della Farnstein di mero ingranaggio di un sistema, quello di giustizia negli USA, marcio fino al midollo.
E da qui sono nate tutte le riflessioni più ampie che When They See Us mi ha spinto a fare. Riflessioni in merito all’ingiustizia di un sistema che non solo non ha perseguito la verità, ma ha preferito prendere in prestito quella più semplice e immediata agli occhi di una società ancora profondamente razzista. Tanto all’epoca quanto ancora oggi. Ho riflettuto sul ruolo dei media, dell’opinione pubblica e delle forze dell’ordine, che dovrebbero proteggere OGNI cittadino invece di togliergli arbitrariamente la libertà.
Di che cosa vuol dire nascere dalla “parte sbagliata” della società e di quanto chi risiede invece dall’altro lato non possa capire fino in fondo cosa ciò comporti. Ho riflettuto sul privilegio bianco, di cui oggi si parla tanto e troppo spesso in termini quasi di sufficienza, come se il parlarne troppo rappresenti per lo più un trend radical chic.
E non ho solo pensato a quanto il problema razziale e sociale raccontato in When They See Us fosse tanto ingiusto da dare i brividi. Ma soprattutto a come sia ancora, purtroppo, terribilmente attuale.
E questo mi ha fatto passare dalla tristezza alla rabbia. Mi sono ritrovata così a provare esattamente le stesse sensazioni descritte da Ava DuVernay durante un’intervista. “Storie come questa vanno messe in scena alla portata di tutti per provocare quel sentimento di indignazione tale da provare fastidio e intolleranza a questo tipo di ingiustizie, tanto da pretendere che non si ripetano mai più”.
Ed è così che ho vissuto la mia personalissima esperienza con When They See Us. Passando da un sentimento all’altro in quella che è stata più una montagna russa di emozioni forti che una mera esperienza di intrattenimento televisivo. Ho provato quasi dolore fisico quando durante il primo episodio ho visto la coercizione di un sistema “di giustizia” fallace. Non c’era una singola goccia di sangue in quelle immagini eppure mi veniva da vomitare come se stessi guardando il peggiore degli splatter.
Ho sperato, sapendo come la realtà fosse ben diversa, che qualcuno si alzasse in piedi durante il processo e fermasse quel nonsense con una risata e un semplice “Dai, davvero?”. E ho provato un’indicibile inquietudine sui primi piani degli attori che ascoltavano la parola “colpevole”. Ho provato tristezza e rabbia per il loro percorso in carcere e ancor più per quello che gli è spettato dopo, quando quattro di loro hanno vissuto ancora sotto l’ingiusto marchio di stupratori.
E quello che ho provato durante il quarto episodio non è neanche lontanamente descrivibile a parole. Ho pianto quasi a ogni frame. Mi sono tremate le labbra. E mi sono chiesta quanto grande possa essere il peso sopportabile da un essere umano.
When They See Us è stata quasi una lezione per me. Una lezione di quattro ore cui credo fermamente si dovrebbe assistere senza mai chiudere gli occhi.