Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul terzo e il quarto episodio della quinta stagione di Yellowstone e del finale di 1883
Il ricordo è una culla, una coperta ancestrale in cui avvolgersi e rifugiarsi nei momenti più complessi. Amarli troppo, però, è un rischio gigantesco, potenzialmente fatale: non è detto infatti che i ricordi ti amino a loro volta. Anzi, finiscono per occultare una carezza in un pugno. Altrettanto lo è vivere nel passato e dimenticarsi il presente: scorrere senza preoccuparsi troppo della traiettoria affrontata, senza destinare ogni cosa alla traiettoria che si affronterà poi. Il ricordo diventa allora una gabbia dorata, il boia che silenzia l’oggi e distorce il domani. L’alba, all’alba. Mentre il tramonto del giorno prima sembra non aver ancora placato la sua ira ed esaurito il grido disperato, assordante e pietrificante. La notte, nel mezzo, è un mare in tempesta, una landa desolata in cui si sovrappongono le fasi della vita, i lupi ululano famelici e gli incubi del tempo che fu irrompono nel sogno a occhi aperti di una manciata di bambini nati adulti: una cavalcata, verso l’ignoto. Al centro del Paradiso.
Dentro Yellowstone, dove il tempo si è fermato sul serio e prescinde dalle logiche della storia, l’Ottocento sorride ancora soave, il Novecento sussurra versi densi di gloria e il Duemila, insensibile, persiste nel voler spazzare via ogni cosa in un’asfissiante omologazione. John Dutton ci pensa, ci pensa continuamente. All’alba. Prima che gli oneri di una vita che non avrebbe voluto vivere, quella da Governatore del Montana, lo strappino al ricordo dell’amata moglie e all’abbraccio di una terra che non lo tradirà mai. L’alba di un politico in fuga dal proprio ruolo che detesta i veri politici, attacca la loro insopportabile scarsità di pragmatismo, evidenza le incongruenze dell’ambientalismo contemporaneo e mal sopporta le ipocrisie delle alte sfere, asservite a un potere che non preserva altro al di fuori della propria salvaguardia. No, John non si è ancora arreso all’idea di essere un altro uomo, sfiorito in un’altra alba. No, John non intende governare: vorrebbe al massimo limitarsi a regnare, senza avere gli strumenti per poterlo fare sul serio.
Ma la fine della sua amata Yellowstone è ormai imminente, pronta a esiliarlo chissà dove e cancellare il suo nome. Mentre ogni principio di autoconservazione va a farsi benedire tra gli spettri di una faida che coinvolge i suoi eredi e sembra voler presentare il conto agli avi ormai sepolti.
Un’immagine evocativa attraversa quindi il terzo e il quarto episodio della quinta stagione di Yellowstone, da ieri disponibili anche in Italia su Sky: un cavallo, in paradiso. Una visione onirica che richiama le note conclusive di 1883, risuonate in un non luogo ormai consegnato all’immortalità di un tempo eterno, e i lutti intrecciati nelle maledette vie affrontate da un crudele destino che avevano marcato col sangue le puntate precedenti: la dipartita del cavallo di John e, soprattutto, la morte a dir poco prematura del secondogenito di Kaycee, chiamato con lo stesso nome del nonno. L’intenso rito funebre che porta alla sepoltura del neonato e dell’animale accoglie la tradizione nativa, trasmette un linguaggio universale che converte il dolore in compassione e unisce culture differenti in una sola sensibilità che appiattisce le distanze e attira a sé la metabolizzazione del distacco. Una peculiare lettura dei tragici eventi, dolce e delicata, incentiva il superamento del momento più difficile e li pone sotto una nuova luce, sorprendentemente positiva: il piccolo John ha vissuto, secondo il vecchio John, una “vita bellissima“. Dopo una sola ora, più che sufficiente per ammirare le bellezze del mondo e sentire il calore di una tenera madre.
Gli occhi del neonato riflettono quindi quelli di una giovane donna che aveva presto salutato la terra tanto amata, oltre un secolo prima. Stretta a sé con la passione di chi non aveva rinunciato ai sogni nemmeno nella stretta mortifera della lucida disillusione, al termine di uno struggente viaggio in cui i crudeli vincoli della sopravvivenza avevano ceduto il passo alla voglia di vivere leggera. L’alba e il tramonto sembrano quindi unirsi in destini comuni umanamente inaccettabili, alla faccia della notte. Mentre la storia par volersi riscrivere ciclica andando al di là degli innaturali mutamenti della nostra apparente condizione. La storia, d’altronde, offre preziose lezioni: uno sguardo indietro permette di guardare avanti, a patto che si decida a un certo punto di volgerlo dall’altra parte. Come sembra non voler fare John, in cui la memoria persiste ostinata nel ridisegnare orizzonti ormai sopiti e occultare le ombre che puntuali si ripresentano, sotto la forma di un lupo che minaccia la sua sconfinata proprietà. Come John, al di là di John. Nell’anima dei suoi eredi, a loro volta ingabbiati all’interno di un passato irrisolto che riscrive la sua narrazione dentro ogni loro sguardo.
Mentre Kayce va dritto per la sua tortuosa strada ancora da tracciare, rivive a sua volta nell’eco di Elsa e rinuncia ogni giorno di più agli onori di un cognome fin troppo oneroso, Beth ci sia aggrappa furiosamente. Trovando l’identità in un diminutivo da non scambiare col nome di battesimo e, ancor più, nell’essere fino in fondo una Dutton. Contro ogni barriera, contro ogni logico compromesso. Con la rabbia di chi sa essere machiavellicamente razionale ed essenzialmente irrazionale, passionale e autodistruttiva. Leggibile e imprevedibile, più di ogni altra nello sfaccettato microcosmo di Yellowstone. Beth deve quindi fronteggiare se stessa, ancor più del suo passato. Un passato che però si riplasma e si distorce nella sua mente, ben oltre ogni ragionevole responsabilità esterna. In due momenti del doppio episodio, su tutti, ritroviamo la rabbia di una donna che si ostina nel volersi fare del male, in cui coesistono i vizi dell’eredità che porta sulle spalle e l’insostenibile peso di un nome che ne rappresenta un manifesto esistenziale. Se da un lato è una vera Dutton nel pensare di poter sottomettere la legge al proprio volere, essere al di sopra di essa e oltraggiarla con l’arroganza di un’imperatrice stordita da manie d’assolutismo, dall’altra Beth si schiude in un pianto incontrollato che la accompagna nella burrasca di una notte perenne in cui si finisce per accogliere l’alba con la medesima forza caotica con cui aveva salutato l’ultimo tramonto.
Un pianto incontrollato in cui non saprà mai accettare la propria condizione e l’impossibilità di divenire una madre. Scaricando ogni colpa su Jamie, per il quale diviene sempre più difficile non provare una parvenza di pietà. Lui che Dutton non è, ne prova le responsabilità, pesanti come un macigno che schiaccia la sua anima. A differenza di sua sorella, mostra di essersi in qualche modo accettato e ha trovato nella paternità una prima via di fuga per trovare se stesso, ma non trova la strada ideale per farsi accettare dagli altri e liberarsi dei demoni di un passato che persistono nel non volerlo lasciare in pace. Soffoca l’urlo, Jaime, nel momento in cui deve affrontare l’ennesima lite violenta con Beth. Per poi esplodere lontano da occhi indiscreti, nella solitudine di un auto in cui confessare a se stesso i sentimenti che gli avvelenano il sangue e lo portano a un passo dall’ennesimo punto di non ritorno. Quell’urlo, però, è ormai troppo assordante per poter essere contenuto oltre: diromperà presto, ne siamo certi. E scatenerà un terremoto, con ogni probabilità attraverso la connessione che Jamie sta creando con la misteriosa donna che intende vendicare l’affronto subito dalla sua Market Equities. E incarna non a caso, sempre più platealmente, un alter ego della detestata Beth.
Il valore della memoria irrompe ancora quindi tra le pagine frastagliate di Yellowstone, in una quinta stagione che sembra volersi abbandonare sempre più alla storia di oltre un secolo e mezzo.
Ancora più che in passato, attraverso un mosaico in cui ogni tassello va al proprio posto in una frontiera atemporale, dominata da sentimenti rincorsi tra le asperità di una storia che scorre imperterrita verso l’idea di un dispotico progresso. Dal tramonto all’alba, rinvangate in un circolo vizioso in cui la notte finisce per occupare ogni spazio vitale. Tra la bellezza di un sole che ci volta le spalle e un altro che irradia l’avvento di una nuova giornata. Tra un episodio che all’alba comincia e all’alba si conclude, restano un senso di disarmante malinconia e le ultime parole di Beth, ormai reduce da una nottata di incroci malvisti, rivalse pianificate, esasperate invettive e ritorsioni audaci, ferma di fronte all’orizzonte con una bottiglia in mano: “Non comincerò questa giornata da sobria”.
La resa di Yellowstone è ormai cominciata, ma gli unici che tentano vanamente di non capirlo sono i soli che si scagliano contro i mulini a vento, prossimi alla disfatta. Per riscrivere un’epopea già conclusa, ben oltre il punto finale. Al galoppo, nell’Eden.
Antonio Casu