Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sui primi due episodi della quinta stagione di Yellowstone
Le campane suonano a morto, in un giorno di festa. Rintoccano incessanti per scandire un tempo che scorre nevrotico, mentre celebrano quello che dovrebbe essere l’avvento di una nuova era. Rintoccano una, due, dieci volte. Ma John Dutton non c’è. Non risponde all’insolente chiamata della storia, si nasconde, occulta la sua stessa esistenza in nome della sopravvivenza della propria eredità. Monolitico, si dissolve. Si estingue nell’ombra sbiadita del politico, arreso all’idea che essere se stesso non possa essere più sufficiente. No, John Dutton non c’è. C’è solo una sua ombra smarrita tra le pieghe di un orologio errante che vorrebbe fermare, prendere a pugni, sbattere contro un muro e distruggere per consegnarsi all’eternità. Oppure portarlo indietro, e basta.
A trent’anni fa, persino cento. Al 1883, ai suoi avi. Al sorriso etereo di Elsa, al testardo sogno di James, all’ostinato amore di Margaret. Ma no, non è più possibile. Non senza percorrere con riserbo il sentiero del compromesso. Non con l’arroganza di chi pensa di poter piegare un mondo intero alle esigenze della propria narrazione. La roccia che si staglia contro il progresso si sbriciola così, manco fosse un meteorite spirante in una terra non più sua. E le campane suonano. Suonano ancora. Per pochi istanti che dilatano il tempo, diventano una vita intera. John, fermo, non riesce a giurare. La memoria persiste, le lancette si liquefanno. Sogna, John. A occhi aperti. Si spezza, al centro del suo personalissimo inferno.
In un’immagine, una singola immagine, si ritrova l’essenza di Yellowstone. E dei primi due episodi della quinta stagione, disponibili in Italia dal primo marzo su Sky.
Nel momento in cui John dovrebbe pronunciare le ultime parole che avrebbe voluto pronunciare, vivere una vita che non avrebbe voluto vivere, essere chi non è. Un politico, il governatore del Montana. Casa sua, ma casa sua non è. Esita, si ferma, si perde in un silenzio tombale. Sembra non volerlo capire, mentre si ostina a interpretare se stesso, il vecchio patriarca, l’ennesimo Dutton. Dentro una veste che non gli appartiene. Celato dietro gli occhiali scuri e un abito luttuoso. Avvolto in un grande cappello nero da cowboy, ultima illusoria barriera da contrapporre a un mondo che corre vorticosamente intorno a sé e lo avviluppa in una stretta mortale che gli fa mancare l’aria. Pare presentarsi al proprio funerale, e le campane suonano festanti. Tituba, senza dire una parola. Per negarsi il sapore amaro di una verità esplicita, fuggire da quel maledetto 2022 che non parla più la sua lingua e rifugiarsi nell’ultima dimora sicura: il ranch, il solito ranch. Yellowstone, ora e sempre. Da preservare a ogni costo, anche al prezzo di un martirio personale.
Non c’è vanità nel primattore che avrebbe preferito evitare l’estremo sacrificio, solo un’esigenza incalzante: la terra, prima di tutto. Anche dei Dutton e della loro stessa resistenza. Un conservatorismo radicalizzato che si ancora all’utopica autarchia di un governante che intende fermare l’invasione, scacciare gli incauti curiosi, distinguere quel che è Montana da quel che non è. Preservare la vita, la natura, distruggere il parco giochi e salvare la natura. La propria natura, si pensava. Ma no: il concetto di proprietà è ormai ridondante, mentre il tempo si relativizza e sfila via dalle dita allo stato liquido. John non c’è. Dutton non c’è. Yellowstone sì, perché il rosso e il nero non sempre si polarizzano e affondano nella sterile ideologia. Si uniscono talvolta dentro sfumature inaspettate, facendo convivere tematiche ed espressioni che sarebbero antitetiche solo per i più miopi. Perché no, John non sta a destra. E manco a sinistra: è un reazionario, ambientalista.
John esercita così un potere che non sa esercitare. Perché questa non è Yellowstone: è una frontiera la cui lingua è a lui aliena. Non ricerca il consenso popolare né è in grado di elaborare in prima persona una sintesi ideale con feroci avversari e maliziosi alleati. Non cerca un trionfo della propria figura né l’imposizione del nome tra le pagine di una storia non interessato a leggere: John è falsamente pragmatico e realmente idealista, ottusamente antidemocratico pur essendo appena passato attraverso le forche del consesso elettivo, e non ha altro pensiero al di fuori dell’espressione di una visione che appare da subito insostenibile. Non agli occhi dell’amata Beth, cieca d’amore per il padre al punto da non riconoscere la sua volontà finale di distruggere ogni suo avere pur di consegnare ai posteri un’atavica saga di cowboy e uomini senza nome, capaci di convivere con un destino che non li ha posti al di sopra del creato ma in funzione di esso. Beth non capisce, ma è disposta a tutto pur di proteggere un padre ormai aggrappato a una fiducia riposta in lei e pochissimi altri. Si sospende tra le tenue ammende per il passato e la brutale aggressività di un presente che impone forza, muscoli e amoralità, senza avere a cuore il proprio futuro. Beth è pronta a sacrificare tutto, in nome di John. Ed essere se stessa – fino in fondo – solo lontana dagli occhi indiscreti del mondo, tra le braccia di Rip.
Lei, l’ultimo frammento impazzito di una dinastia allo sfacelo. L’animo gentile di una ragazza a cui è stata negata l’età dell’innocenza si incontra così, ancora una volta, con l’incontrollata violenza di una donna che umilia chiunque si contrapponga al disegno del padre. A partire da Jamie, il figliol prodigo che sembra smarrito tra le righe di una coscienza devastata dagli eventi e da sliding doors attraversate nel verso errato, perso nel frastuono dello sparo con cui ha tolto la vita all’uomo che la vita gliel’aveva data. Jamie, a differenza di Beth, capisce, ma non ha una voce. Parla, ma non viene ascoltato. Ha una visione lucida di quel che sta succedendo e di quel che succederà. Dimostra di esser l’uomo giusto al momento sbagliato. Il vero politico, nel falso profilo. Sa che John perderà ogni cosa e dei Dutton resterà solo un eco disperso nel vento di una Yellowstone che non esisterà più. Sa che l’insensibile storia s’imporrà anche tra i bucolici panorami di un Montana fuori dal tempo, e che le prove muscolari del vecchio patriarca presteranno il fianco alle violente ritorsioni di un progresso, presunto, che ricerca nuovi terreni d’espansione. Sa, Jaime sa. Ma al pari di John e Beth, non c’è fino in fondo: si schiaccia tra i tempi dissonanti d’un quadro di Dalí, ancora fermo all’ultima fermata di una stazione macchiata dal sangue di chiunque non abbia voluto accettare l’egemonia dei Dutton. Alla ricerca di un nome che non avrà mai.
La fermata conclusiva, il capolinea, l’anticamera del sonno eterno. Alle porte di Yellowstone, nell’ultimo fronte del vecchio west tra le rive di un guado arcigno, pullulante di lupi famelici.
Mentre l’aria si avvelena e l’acqua s’inquina, la morte incalza e si plasma nelle tragiche parole di Rip e nella lira di neroniana memoria, nel respiro finale del cavallo del padrone e di un bufalo che trova la sua tragica dipartita nella fatalità di un singolo istante fuori luogo. In un fil rouge che si protrae nel doppio episodio e si sublima in un nuovo lutto, dal plateale valore simbolico. Un lutto improvviso, il sangue di un capitolo in cui si combinano speranza e disillusione, il prematuro tempo della resa e l’imminenza di una fine che richiede il sacrificio di un altro inizio. Come Elsa all’alba dell’epopea. Come Lee ai primi vagiti di questa straordinaria saga. Come ora, nel buio di una strada dispersa nel nulla, un nome spira appena dopo esser stato pronunciato per la prima volta. In un ciclo in cui amore e morte danzano infernali. E una terra imperitura si prepara ad accogliere l’ultima anima pellegrina, dal destino segnato ancora prima di esser stato scritto: John. John Dutton. Il piccolo John Dutton. Lui, negli occhi e nell’anima di un nonno che trapassa a sua volta, mentre ancora cammina. Le campane suonano così a morto, stavolta per davvero, in un tragico giorno di festa. Incessanti come le lacrime di chi non può permettersi di piangere, nel bel mezzo di una guerra. A un passo dall’addio.
Antonio Casu