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Yellowstone 5×07/08 – Capolinea al centro dell’Inferno

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Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul settimo e l’ottavo episodio della quinta stagione di Yellowstone

Gli echi della guerra risuonano impetuosi. Dentro una famiglia, nel cuore di un conflitto che sembra non conoscere altra destinazione al di fuori di una stazione. Al capolinea. Al centro dell’Inferno, là dove i violenti sussurri del passato bussano alla porta per presentare il conto. È il momento dell’azione, un attimo dopo l’esaurimento delle minacce e di ogni possibile mediazione. Jamie e Beth, Beth e Jamie: stesso cognome, un’altra storia. Antitetico il rapporto, con un padre. John, incapace di scrivere un futuro per il proprio ranch. Ostaggio della storia, non legge il presente e si ritrova intrappolato in un’idea romantica che assume sempre più i contorni di una condanna a morte per se stesso. La dispersione dell’eredità che non sa scendere a patti col mondo in cui è costretto, suo malgrado, a sopravvivere. Al di là del sogno, l’incubo. La necessità del sangue, la discarica dei propri peccati. La stazione dei treni. L’estrema difesa, alla faccia di ogni giudizio terreno. Le regole riscritte, lo sfacciato conservatorismo: l’inconsistenza del limite, alle porte di Yellowstone. La sua terra, la terra di nessuno. Ultimo confine oltre la legge, destinato a cadere sotto i colpi di un progresso che scrive da decenni un romanzo in cui non c’è più spazio per i Dutton.

Nessun marchio potrà mai cambiare il corso degli eventi. Nessuna ritorsione, nessuna vendetta. Nessun disperato gesto, economicamente insensato. Non l’esilio, non la fuga dall’inverno verso i verdi pascoli delle terre più calde. Non la politica né il carisma. Non l’illusione di poter cavalcare in direzione ostinata e contraria. No, i Dutton non vinceranno. John non sarà il messia di una vecchia nuova era: il rumoroso silenzio del XXI secolo avrà la meglio, senza compromessi.

La fine è imminente e risuona in ogni parola del settimo e dell’ottavo episodio della quinta stagione di Yellowstone, il timido midseason che interrompe una narrazione che verrà ripresa, forse per l’ultima volta, tra alcuni mesi.

Un disarmante senso d’impotenza sembra attraversare gli sguardi di chi non può invocare la resa, mentre le azioni dissimulano e paiono andare nella direzione opposta. La direzione di una guerra intestina, da combattere senza che qualsivoglia legge si frapponga. Il capitolo conclusivo di una tragedia tramandata per decenni, senza che le esperienze degli avi abbiano davvero insegnato qualcosa ai figli. E che qualcuno abbia pensato, in preda all’obiettività, di cambiare il proprio destino e far rivivere i Dutton attraverso il piglio pioneristico di chi è costretto a una metamorfosi per sopravvivere ad alta quota. Ora, però, le cose potrebbero cambiare sul serio. E le miope visioni di un vecchio cowboy potrebbero cedere il passo a una preservazione meno convenzionale dello spirito di una famiglia.

Nel brutale scontro che viene consumato da Beth e Jamie in A Knife and No Coin si individua infatti una possibile sintesi intrigante, nuova nelle dinamiche di Yellowstone. Se da un lato la figura di Jamie, il figlio rinnegato che ha cercato fino all’ultimo momento un’approvazione da parte del padre dopo aver persino mostrato di essere l’obiettivo di un inconsistente ricatto, assume i tratti del nemico, dall’altra Beth sembra non esser più insensibile ai moti di una realistica visione dei fatti. Tituba, di fronte a una cieca devozione per John che sembra non essere più incondizionata. Beth, pur piena d’amore per il genitore, scricchiola ancora di fronte alle insensate decisioni di un patriarca che sta portando alla rovina la famiglia che aveva difeso, strenuamente, dalle intemperie del nuovo secolo. E alle parole del fratello, lucido nel definire le controverse priorità che portano alla salvezza di Yellowstone, in qualunque forma possa essa sopravvivere. Parole e azioni si muovono nella direzione di una guerra e di una morte evocata da ambo le parti, senza più perdersi in ormai superate esitazioni. Ma gli occhi parlano a loro volta, più delle parole. E potrebbero celare un’altra verità, in cui i due fratelli potrebbero persino trovarsi a perseguire obiettivi per certi versi comuni, dopo aver metabolizzato l’ennesimo scontro. Slegati dal volere di un padre sempre più isolato, alla ricerca di un compromesso che possa salvaguardare almeno parte dell’eredità spirituale ed economica di Yellowstone.

Paradossi, in un midseason che si regge sui non detti almeno quanto tutto quello che si è detto. E che potrebbe disvelarsi nei prossimi episodi attraverso sorprendenti capovolgimenti di fronte che potrebbero prescindere dalla deriva di una guerra dolorosa. Beth, d’altronde, sa che Yellowstone avrebbe bisogno di un‘imprenditrice, prima ancora che di un allevatore. E Jamie sa di esser stato forgiato per essere l’ultimo difensore in una battaglia col tempo in cui la carta può fare ancora più male del sangue. Al mezzo, John. Il solito vecchio John. Inerme di fronte alla tempesta scatenata da un batterio e da un’infezione, la brucellosi, che rischia di spazzare via cento anni di patrimonio genetico e spezzare il fragile equilibrio stabilito da un uomo che persiste, ossessivamente, nel guardarsi alle spalle senza avere la volontà di scrutare l’orizzonte.

Quindi no, non potrà finire bene. Perché la ragione dei figli, consci del fatto che un padre inadeguato dovrebbe semplicemente farsi da parte, si scontrerà sempre contro un muro insormontabile. Con una sola possibile conseguenza: l’implosione di un’idea di mondo. E di un modello ormai insostenibile.

Passato, presente e futuro si accartocciano allora in una sola dimensione, ancora una volta. Come era successo in 1883, come succede da sempre in Yellowstone. E i flashback assumono un senso più profondo, mai pretestuoso e sempre funzionale allo sviluppo di una narrazione tanto lineare da attraversare il tempo e appropriarsene ben oltre la mera cronologia. Attraverso i giovani John e Rip, in particolare, scopriamo il senso di una marchiatura. E di una fedeltà aprioristica che sconfina in una lealtà pressoché religiosa. Essere cowboy, nel mondo di Yellowstone, significa abbracciare un concetto, farlo proprio e non metterlo in discussione per alcun motivo, pur ragionevole. Significa dar fiducia a chi merita fiducia e sacrificare se stessi per annientare chiunque non la meriti, in nome di una lettera impressa col fuoco sul petto. Sul cuore, per un patto che vincola per un’esistenza intera. Sarà interessante, allora, vivere la prossima evoluzione di Rip, chiamato a essere, ancora una volta, un soldato. Il soldato. Il soldato di John. E come si comporterebbe se venisse meno l’unità di intenti tra un padre a cui deve tutto e una figlia, in conflitto con se stessa, che ama visceralmente.

Mentre Yellowstone implode e forze centrifughe allontanano i primattori dal cuore del ranch, un sorprendente impulso centripeto riporta a casa, per l’ennesima volta, il tormentato Kayce e una famiglia, la sua, dall’imponente rappresentazione metaforica.

Negli occhi di un figlio che sembra poter ritrovare la strada di casa, una casa che potrebbe finalmente essere davvero sua, si ritrova lo spirito del tempo. E di una profezia, evocata tra le struggenti righe di 1883, che potrebbe dare un’idea, una piccola idea, di come potrebbe concludersi bene una straordinaria saga che non potrà non concludersi privo di un lieto fine. Con un figlio, Tate, in cui si sovrappongono le identità del cowboy e del nativo, alla guida di quel che rimarrà di Yellowstone. Nel solco del miraggio di Elsa e di una terra restituita, seppure forse in minima parte, a chi l’aveva posseduta da sempre senza mai avvocare la volontà di detenerne la proprietà. Risuonano allora, ancora più forti, le parole di Crow Spotted Eagle a James Dutton, mentre indicava la Paradise Valley:

In sette generazioni il mio popolo si alzerà e te la riprenderà.

Un eco di guerra, l’ennesimo. Oppure chissà, l’eco di una pace, incarnato dall’unione carnale tra due popoli in conflitto da sempre, che renderebbe giustizia senza che altro sangue scorra invano. Fino a rigenerare un sogno, tra i ridotti confini di un sorriso non più destinato all’esilio. Al di là del buio, una luce. In fondo al tunnel dell’assolutismo del cemento che si approprierà anche del Montana. Un piccolo Paradiso, sfuggito alle mani di chi porterà via tutto il resto.

Antonio Casu

Yellowstone 5×05/06 –  La testa appoggiata alla sella, rivolta alle stelle