Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul finale di Yellowstone.
Avreste mai pensato che la battaglia contro i mulini a vento di Yellowstone, impostata come tale fin dal primo episodio, potesse essere destinata a un’idea remota di vittoria? Sì, no, forse. Sì: la conclusione è quanto di più vicino a un lieto fine potesse concepire Taylor Sheridan. No: non era l’unico finale possibile per Yellowstone, anche se era stato suggerito così fin dal ritorno dopo l’addio di Kevin Costner. Forse, però, va bene così.
Non a tutti, sia chiaro: dando una rapida occhiata alle recensioni pubblicate negli Stati Uniti nei giorni che hanno accompagnato la messa in onda dell’ultima puntata, non mancano le voci discordanti e critiche, se non addirittura adirate. Ma visto come si erano messe le cose, Yellowstone, una della migliori serie tv degli ultimi anni, ha avuto un finale più che dignitoso. Non era scontato, affatto: i rimpianti per quello che avremmo potuto vedere e non vedremo mai, tuttavia, rimangono. E l’ostinata onnipresenza in scena del suo autore (a tratti ingombrante e ridondante, diciamolo), non è sufficiente per toglierci dalla testa l’idea che questa storia avrebbe meritato qualcosa di meglio di una promozione solida, arrivata con un ultimo atto per molti versi scolastico.
Già, scolastico. Scolastico e prevedibile, anche se non è di per sé un male.
Giusto una settimana fa, nel momento in cui avevamo recensito l’undicesimo e il dodicesimo episodio di Yellowstone, avevamo evocato alcuni tra gli scenari principali che si immaginava avrebbero caratterizzato le puntate conclusive. Detto, fatto: è successo gran parte di quello che si era prospettato da settimane. Ma occhio: non lo diciamo certo per darci dei meriti, per niente. Al contrario, non serviva alcuna dote divinatoria per prevedere un turning off che ci avrebbe riportato a 1883 nella direzione opposta, dando l’idea che quella dei Dutton non sia stata altro che una lunghissima parentesi. Una straordinaria saga, prima del ripristino di uno status quo intervallato dallo scorrere intenso, vorticoso e violento di sette generazioni di pionieri.
Yellowstone si riconsegna così ai legittimi gestori, alieni al concetto di proprietà, riportando la terra a una dimensione nativa, essenziale e finalmente sostenibile. Un’oasi di pace, tra le brutture del mondo. Mentre i cowboy fuggono chissà dove alla ricerca di un ultimo sprazzo d’avventura, la natura riprende gli spazi vitali all’interno di una dimensione persino fiabesca. Va bene così? Sì, anche se è esattamente tutto quello che avevamo in testa da tempo. Si è preclusa, così, la possibilità di sussultare frequentemente di fronte al lento incalzare dei novanta minuti conclusivi, impregnati di una bellezza talvolta fine a sé.
Il finale di Yellowstone presenta gran parte degli ingredienti ideali per scrivere il finale perfetto, scritti dal ruvido poeta che aveva accarezzato e graffiato il racconto con un raro controllo della narrazione. Tuttavia, una volta arrivati al traguardo, la loro combinazione finisce per risultare artificiosa per ampi tratti.
La mente c’è, mentre lo spirito sopravvive tra le righe di alcune, intense, immagini silenziose. Manca, però, qualcosa. La sensazione è che non si vedesse l’ora di chiuderla senza incappare in ulteriori incidenti di percorso, dopo averla amata visceralmente. Una lunga attesa, ricompensata con un racconto già scritto da tempo.
Passando attraverso la morte brutale di Jamie Dutton, sacrificato sull’altare di un arco narrativo che avrebbe meritato un diverso trasporto nell’ultima fase, e la vendetta di Beth (sorretta dalla solita monumentale Kelly Reilly), passando per l’urlo di libertà di Kayce (finalmente svincolato da un destino che l’aveva soffocato fin dalla nascita), la profonda essenzialità di Rip, la perdita di Yellowstone e il ritrovamento di un punto personale (disconnesso dalla grammatica autoritaria di una saga spintasi ben al di là dei suoi confini naturali), i novanta minuti finali della serie assumono le dimensioni e il senso di una liturgia necessaria. Fragile e imperfetta, ma comunque necessaria.
Quasi fosse stato scritto con le logiche attraverso cui si chiudono spessissimo le sit-com più longeve, Yellowstone si è avventurata nel sentiero più semplice per consegnarsi alla memoria degli spettatori senza rischiare la capitolazione.
Una scelta logica, anche in relazione alle difficoltà più volte evocate. Ma sarebbe scorretto non pensare che i Dutton avrebbero necessitato di fare i conti più duramente con la propria storia prima di ritrovarsi all’inizio di una nuova saga. In fondo, lo attendavamo da sempre, ma Sheridan ha deciso di farli uscire di scena da vincitori assoluti. O almeno, da vincitori assoluti nel limite massimo di una coerenza interna che non avrebbe giustificato più di quello che abbiamo visto. Pur non essendo sfuggiti alle logiche di un tempo che non avrebbe mai accettato la natura monolitica del vecchio John, I Dutton hanno la possibilità di reinventarsi nel segno di una discontinuità che non dimentica gli insegnamenti – e i dettami meno tossici – di un passato messo alla porta una volta per tutte.
Fin qui, le note negative o agrodolci. Ma questa non è una recensione negativa. Pur essendosi spogliata dalla poesia in nome del lucido confronto con una realtà disillusa, il finale di Yellowstone consegna agli annali anche molti momenti di sconfinata bellezza.
Silenzi che urlano, come spesso è stato nel corso delle cinque stagioni andate in onda. Sheridan decide ancora una volta di lasciar parlare le immagini, le espressioni dei suoi protagonisti e le emozioni che covano dentro e celano a malapena dietro le apparenze. Immagini evocative, come quella che accompagna la bara di John nel fienile per poi ritrovare la sua centralità nel funerale, sospeso tra l’addio a un personaggio iconico e quello a una serie che ha scritto una pagina importante. Momenti densi di intensità, sussurrata. Sparsi nei novanta minuti e persi nelle radure del Montana per ricordarci quanto abbia saputo darci Yellowstone negli anni.
E poi c’è la voce di Elsa Dutton, immortale. Ricomparsa in scena tra le tombe capovolte da un tempo che cancella per un solo istante la loro saga, la sua narrazione ci accompagna in slow motion verso la chiusura con una nota di poesia che riconcilia con tutto il resto.
Tutto il resto, quello che tra un po’ conterà solo fino a un certo punto.
Yellowstone si è conclusa, ma gli spin-off avranno le potenzialità per restituire forza e trasporto a un racconto che potrebbe avere ancora qualcosa di importante da dire. Yellowstone è finita, ma l’eredità rimarrà e verrà trasmessa ai posteri. La Y che campeggiava sul ranch è caduta, mentre lo spirito sopravvivrà ancora una volta alle esistenze dei suoi interpreti. A un mondo finito e a un altro che risorgerà sotto la forma dell’evasione da una realtà ormai impossibile.
Una volta superata la fine e metabolizzato quello che abbiamo visto, ci guarderemo alle spalle e guarderemo tutto con occhi diversi. Ci convinceremo di aver vissuto una bella avventura che, al di là di tutto, è stata coerente con se stessa fino al punto conclusivo. Ricorderemo John, al di là dei capricci. E vedremo sullo sfondo quel che rimane dei Dutton, pronti a guardare all’orizzonte con ispirazioni rinnovate. Sì, è un finale imperfetto. No, non è l’unico finale possibile, ma va bene così. Va bene lo stesso. Li saluteremo da lontano dopo aver deposto le armi, e a quel punto la parola libertà assumerà un senso ancora più profondo.
La chiamavano così, diremo. E sorrideranno timidamente, senza dire una parola. La panoramica si amplierà e il sole entrerà in scena col bagliore dell’ennesimo tramonto. Rieccola, la poesia. Allora l’alba, e le sagome nell’ombra in sella ai cavalli. I cappelli da cowboy e una convinzione: nonostante tutto, è stato bello. Bellissimo. Grazie, Yellowstone: è giusto lasciarci qui, ma ci mancherai lo stesso.
Antonio Casu