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La ruvida nostalgia di Yellowstone

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Contro chi combattiamo? Contro il mondo

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Questa invettiva pronunciata da John Dutton, al termine del primo episodio di Yellowstone, non è una dichiarazione d’intenti soltanto narrativa. Rimanda a un immaginario che Kevin Costner conosce molto bene, avendo dato vita a un capolavoro dell’ultima grande età del western, mostrando enorme rispetto per un genere cinematografico che si avviava in quel momento verso il suo declino.

In quella frase c’è tanto di John Dutton. E in John Dutton c’è tanto di quel topos dell’eroe maledetto, disilluso dalla vita e disposto a morire piuttosto che abbandonare i suoi principi. C’è tanto del Clint Eastwood ammirato ne Gli Spietati, nel modo in cui John elabora il lutto per la perdita della moglie, ma anche per come non accetta di trascorrere passivamente il tempo che gli resta da vivere.

C’è tanto, ovviamente, dei personaggi western interpretati da John Wayne, per quella fierezza di fondo (che oggi verrebbe inquadrata, non del tutto a torto, nello spettro della mascolinità tossica) che gli impedisce di piangere in pubblico la morte di un figlio; soprattutto, in comune con Il Duca, il capofamiglia di Yellowstone possiede la capacità di rappresentare appieno gli ideali repubblicani americani e, al tempo stesso, ergersi come strenua opposizione dell’establishment capitalista.

Taylor Sheridan, non a caso uno dei più grandi autori sulla scena, ha saputo far rivivere tutto questo in una delle migliori serie tv attualmente in circolazione.

Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler è uno dei più importanti manuali di sceneggiatura, un vero e proprio caposaldo che mostra come attraverso una ricombinazione di archetipi e topoi (la Prova centrale, l’incontro con Nemici e Alleati, la Chiamata, il Rifiuto…) definiti le 12 tappe del viaggio, si può dare origine a qualsiasi storia televisiva o cinematografica. Nell’introduzione viene sottolineato proprio come il western sia il genere che per primo e meglio si sia prestato a questo modello narrativo.

In Yellowstone il viaggio dell’eroe di John Dutton comincia al crepuscolo della sua esistenza. Quando, cioè, il ranch di famiglia viene minacciato da interessi forse più grandi anche di quegli sconfinati ettari nel Montana. Risulta quasi ironico tracciare un parallelo tra questo e il personaggio che Kevin Costner interpretava in Balla Coi Lupi e notare come le due figure appaiano perfettamente agli antipodi. Un contrasto che appare quasi voluto e che rende ancora più affascinante l’analisi di Yellowstone.

Mentre John Dunbar rimaneva estasiato da quelle praterie nel Nebraska ed era ansioso di fraternizzare con la tribù Sioux, apprendere le loro abitudini, fino al punto da diventare uno di loro, per Dutton contano soltanto i legami di sangue e dunque si chiude al mondo esterno. Ogni rapporto con lo straniero, quando non bellicoso, è finalizzato esclusivamente al proprio tornaconto e riesce a tenere marcata questa linea netta di distinzione con una freddezza alle volte spietata.

In senso più ampio, Dunbar, con la sua genuina esuberanza e anche una certa goffaggine, decostruiva la figura dell’eroe western tradizionale, al contrario del disincantato John Dutton, il quale riporta in auge tutto quell’immaginario di cui sopra. Con una differenza sostanziale. Yellowstone è pur sempre una rivisitazione moderna del genere e – durante il suo viaggio vogleriano – un protagonista che ci appariva come monolitico svela anche a se stesso la sua reale essenza, con appresso tutto il carico delle sue fragilità. Ci ritorneremo.

Col passare degli episodi, inoltre, comprendiamo insieme a John D come la difesa a tutti i costi del ranch non sia altro che un pretesto per riunire la sua famiglia.

Proprio nel nucleo familiare dei Dutton si ritrovano quei personaggi belli e maledetti che elevano il tasso qualitativo della serie e creano un ponte tra il western che fu e la nuova era, di cui quest’opera, i suoi spin-off e Deadwood rappresentano la massima espressione. Kayce è una figura mitologica del genere, condannato suo malgrado a essere l’erede del capofamiglia. Il figlio adottivo Bill è quasi un personaggio shakespeariano transitato nel Montana, mentre un discorso a parte va fatto per Beth.

La golden age del western, in quanto espressione della società del tempo, era contrassegnata da un certo maschilismo. Il ruolo della donna, generalmente, si limitava in termini narrativi alla “Ricompensa” dell’eroe. La giovane nipote catturata dai Comanche da salvare; la meretrice del bordello da difendere; la vedova di cui innamorarsi. Questo non ha impedito del tutto la nascita di personaggi femminili iconici, ma l’ha sicuramene limitata. Salvo le dovute eccezioni, questa subordinazione ai personaggi maschili è rimasta fino ai giorni nostri, o per meglio dire fino a una serie tv rivoluzionaria come Deadwood.

Con Beth Dutton si è andati ancora oltre, poiché non è solamente un personaggio femminile che svolge una funzione di rilievo nella storia; lei, come anche Monica Dutton, assolve a funzioni e atteggiamenti che prima erano appannaggio esclusivamente dei male characters. È un personaggio, in sostanza, che poteva esistere anche negli anni ’60 ma solo se fosse stato un uomo.

È anche attraverso queste enormi differenze che sottilmente e naturalmente vanno a inserirsi nel contesto che Yellowstone perpetra un sentimento nostalgico raffinato e ineluttabile.

Poi è chiaro, Yellowstone non è soltanto rivisitazione dei fasti del passato. È certo che non cambiano alcune dinamiche o archetipi. Il bestiame, i rodeo, la natura selvaggia. A seconda del punto di vista, anche la trama si configura come uno scontro ideologico tra invaso o invasore. Cambia, tuttavia, il contesto. Riemerge con crudezza la battaglia tra indiani e cowboy, ma il substrato geopolitico è molto, molto più complesso. La famiglia Dutton, ad esempio, si pone al tempo stesso sia come vittima che come carnefice. È preda delle mire espansionistiche della politica e degli imprenditori locali, la qual cosa offre il la all’inizio della storia, ma anche occupante (da ormai molte generazioni) di quelle terre che un tempo appartenevano alla popolazione nativa.

La serie gioca tantissimo con questi intrecci, strizzando l’occhio ora ai political drama, ora ai gangster movie. A volte due schieramenti si alleano contro un terzo, poi tutto si rimpasta e si sovvertono gli equilibri. Ognuno ha le proprie ragioni da sostenere, tutti i punti di vista sono adeguatamente approfonditi ed è soltanto il fascino magnetico della famiglia protagonista che spinge lo spettatore a parteggiare per essa. E poi c’è la fine dell’eroe maledetto così come ci era stato presentato nei film con cui siamo cresciuti. Non esiste la possibilità di preservare l’orgoglio in tutta la sua purezza, in questo nuovo mondo, e persino un uomo tutto d’un pezzo come John Dutton dovrà farci i conti. Ancora più a fondo di Ethan Edwards, straordinario protagonista di un film liminare come Sentieri Selvaggi, interpretato da John Wayne, dovrà scavare nella propria umanità, per il bene della sua famiglia.

In fondo la virtù di una serie come Yellowstone sta tutta qua: essere perfettamente consapevole dell’esistenza di un immaginario potentissimo, di giganti sulle cui spalle camminare e da cui attingere tutto il meglio che hanno saputo offrire; nel contempo è riuscita a fare quel passo oltre e calarsi perfettamente nel nostro tempo.